Bianca di Collalto - Leggenda veneta
Da un racconto di Pasquale Negri, riveduto da Edoardo Rubini
Introduzione
Con questa pubblicazione l'Associazione Europa Veneta intende ricordare la socia in memoriam Albina contessa di Collalto, venuta a mancare di recente.
I Collalto sin dall'Alto Medioevo furono conosciuti come una delle famiglie più potenti d'Europa, legate al Sacro Romano Impero; tra le tante importanti notizie riferite dall'araldista Casimiro Freschot (1707) a proposito di questa illustre casata, sono ricordate le circostanze del suo ingresso nel patriziato veneziano: "Continuando le gare tra li Re d'Ongheria, e la Serenissima Repubblica, che fu sforzata à sostener in varie guerre li suoi interessi contro quella Corona ... portossi col solo motivo del proprio valore, il Generoso Conte RAMBALDO nel 1306. à soccorso de' Veneti, e con nervo di proprie militie, havendo reso efficace il suo officio, fù dal Serenissimo PIETRO GRADENIGO à pubblico nome aggregato alla Veneta Nobiltà, espresse la benemerenza con li attestati più vivi di stima, e di gratitudine".
Il reperimento presso la Biblioteca della Fondazione Querini Stampalia di un opuscoletto intitolato "Bianca di Collalto - Leggenda veneziana" (di Pasquale Negri, Tip. Melch.Fontana Impr., Venezia, 1866) ha offerto lo spunto per la stesura di un nuovo testo, che raccontasse la vicenda con un linguaggio conciso e moderno, restando al tempo stesso fedele ed aderente al modello originale. Lievi differenze si rinverranno nello stile, laddove la narrazione ottocentesca calcava la mano contro alcuni personaggi e poneva tutta l'età medievale sotto una luce sinistra, in aderenza ai pregiudizi sulle epoche passate che proprio allora si andavano radicando.
Lo sfondo ideologico che connota il racconto emerge con evidenza: Bianca incarna la Madrepatria veneta, avvilita da decenni di occupazione straniera: dietro la ferocia dei personaggi bavaresi può cogliersi una profonda ostilità verso l'Austria, che si manifestò durante il primo anno dell'annessione al Regno d'Italia. Oggi si potrebbe osservare come il riscatto nazionale dei Veneti fosse questione più complessa del puro distacco dal dominio di Vienna.
Qualcuno si meraviglierà che a Bianca di Collalto si assegni la parte di semplice ancella, vittima della crudeltà di nobili stranieri e potenti. Questa figura, in realtà, ha carattere soprannaturale, ergendosi a simbolo dell'attaccamento alla propria terra (proiettata nell'ambiente del castello) oltre i limiti della condizione umana.
Venezia, 15 luglio 2001


Edoardo Rubini
La leggenda di Bianca di Collalto
 Tanti secoli fa viveva il conte Guiscardo, rimasto in giovane età erede universale dell'antichissima famiglia dei Collalto. Questa stirpe facoltosa e ragguardevole abitava in un possente castello nei dintorni di Treviso ed aveva giurisdizione su parecchi paesi e villaggi circostanti.
Invitato da principi illustri a visitare le loro corti, il conte passò le Alpi accompagnato dal suo fastoso seguito, con l'intenzione di prender parte a Dresda a tornei fra valorosi cavalieri. Fu allora che egli conobbe la bionda principessa Ildegonda, il cui lignaggio e la cui bellezza la facevano apparire come la fanciulla che un giovinsignore più poteva desiderare . Ella apparteneva ad una casata bavarese congiunta al sangue reale e ciò la poneva al di sopra di qualunque altra: Guiscardo se ne invaghì e ben presto la nobile coppia convolò a nozze. La novella sposa aveva un fiero temperamento, reso ancor più duro dalle enormi ricchezze e dall'educazione che l'aveva resa usa al potere; a parte il suo carattere, un'ardente passione la legava al consorte.
La residenza dei Collalto era immersa nell'amenità e nel verde del paesaggio: all'arrivo delle carrozze di corte, le strade si riempirono di contadini vestiti a festa che tenevano in mano ghirlande di fiori e cesti bianchi ricolmi di frutta. Gli armigeri erano schierati fuori delle mura coperti da elmi e corazze, muniti di lance ed alabarde splendenti d'acciaio brunito, mentre ai bordi del ponte levatoio i domestici attendevano di accogliere la loro nuova signora agghindati in sfarzose livree. Tirata da sei neri destrieri, la vettura degli sposi avanzava al centro della schiera; giunta al ponte, l'intendente rivolse un omaggio ai padroni, mentre il cappellano sparse su di loro l'acqua santa lustrale. Il corteo fece ingresso nel primo cortile del fortilizio per far scendere i passeggeri, che salirono per le scale addobbate di pregevoli arazzi. La comitiva trovò le pareti del salone tutte ricoperte di stendardi, armi ed antichi trofei, cui facevano da sfondo damaschi di velluto frangiati d'oro, ghirlande d'alloro e tanti fiori, a comporre un vago disegno.
Gli sposi stavano assisi sul trono con il capo cinto della corona di conte, mentre congiunti ed amici facevano loro ala e i principali dipendenti si prodigavano in omaggi ed in inchini. L'altera Ildegonda osservava compiaciuta la cerimonia girando qua e là i suoi occhioni chiari e vivaci, tenendo a mente grado e condizione di coloro che si prostravano davanti a lei ed assaporava il dolce gusto del nuovo potere che veniva acquistando. Ecco allora approssimarsi una donna ormai in là con gli anni con al fianco una graziosa fanciulla, al pari di lei vestita con garbo e decoro. Fatto un profondo inchino, manifestarono con un timido cenno il desiderio di baciare la mano destra della contessa, la quale concesse il favore, ma non potè fare a meno di notare i delicati lineamenti della giovane. Appena le due furono distanti, Ildegonda si rivolse al conte per sapere chi fossero. Guiscardo spiegò trattarsi della maggiordoma del castello cui era affezionato, perchè la madre lo aveva a lei affidato prima di morire quand'ancora egli era in tenera età. "E l'altra ?" - chiedeva preoccupata la sposa. "L'altra è la figlia unica di Anna, di cui vi ho detto. Il suo nome è Bianca. Ha quasi i miei anni e siamo stati allevati insieme, sicchè le voglio bene come ad una sorella: ha un aspetto incantevole, ma dovete sapere che il suo animo è puro e devoto come quello di un angelo". "Dunque voi l'amate ?" soggiunse la bionda nobildonna, cercando di sorprendere il consorte senza nascondere un filo di irritazione. "E' vero che l'amo, ma vi ho detto di quale affetto" - rispose sorridendo Guiscardo - "Sappiate, ad ogni modo, che avevo già pensato di destinarvi Bianca come dama di compagnia, se questo può quietare i vostri lievi sospetti. Del resto sono sicuro che il suo zelo non vi darà motivo di lamentarvi". Ildegonda apparve soddisfatta della risposta e sollevata dal suo turbamento.
Consumato il lauto banchetto, nella piazza della fortezza si tennero gare cavalleresche; Ildegonda fastosamente vestita assisteva alle prove di valore appoggiata al balcone maggiore, poi distribuì con le sue mani i premi ai vincitori.
Le finestre di tutte le stanze rilucevano nel buio della notte, ovunque ardevano fanali e candelabri, mentre nel cortile avevano luogo giochi di menestrelli; un trovatore rivolse un soave canto alla contessa, accompagnandosi con l'arpa.
Si aprirono quindi le danze e, conclusa la festa, i convitati presero commiato porgendo fervidi auguri agli sposi; i congiunti e gli ospiti stranieri si ritirarono invece nelle camere loro assegnate. L'allegro trambusto lasciava posto ad un profondo silenzio.
Dovendo prepararsi per la notte, Ildegonda raggiunse un elegante stanzino, dove ad attenderla trovò Bianca con le altre ancelle. La sposa sedette sopra un magnifico seggiolone dorato, davanti al quale campeggiava un ampio specchio. Bianca le toglieva dal capo gli spilloni gemmati ed il diadema e le scioglieva dal collo le catenelle d'oro. Ildegonda seria e taciturna osservava allo specchio la propria immagine e nel contempo quella della modesta fanciulla, i cui tratti erano lumeggiati dai due candelabri d'argento che ardevano. Benchè la contessa fosse di superbo aspetto, ebbe per un attimo l'impressione che le sue qualità fossero messe in ombra. Avvolta in una vestaglia candida e leggera, ella raggiunse il marito in camera da letto e alla domanda se si fosse trovata bene con la nuova cameriera rispose di sì; tale innocente premura la fece però sussultare per un segreto sdegno.
Sentimenti del tutto diversi si stavano intanto destando nel cuore di qualcun altro. Il nobile Guiscardo aveva condotto con sè da Dresda alcuni cavalieri, che ricevettero chi il titolo di armigero, chi quello di scudiere e tra questi si distingueva Sinibaldo, un valoroso guerriero dalla corporatura colossale. Questi aveva servito come suo signore il padre di Ildegonda e proprio grazie a lei aveva ottenuto di venire in terra veneta , assumendo il titolo di primo scudiere del conte. Aveva quindi scortato gli sposi a cavallo tenendosi sulla destra della carrozza di gala e durante il ricevimento era rimasto ritto in piedi vicino al trono dei conti con la visiera dell'elmo alzata, da cui si distinguevano i tratti di un uomo di circa quarant'anni, la cui durezza incuteva paura.
Sembrava che dall'animo di un simile energumeno non potessero sorgere che emozioni connaturate alle crudeli arti che esercitava: sfide, combattimenti, esecuzioni di ordini sanguinari. L'aspetto ingenuo e dolce di Bianca gli aveva invece procurato un'insolita sensazione, sicchè durante la serata non era riuscito a distogliere da lei lo sguardo, cercando il momento giusto per rivolgerle la parola, ma Bianca badava sempre alla contessa, seguita dalla madre. L'audace Sinibaldo venne a sapere che l'incantevole fanciulla qualche volta alla sera faceva una passeggiata per il giardino assieme alla madre, così si nascose presso un viale di carpini dove le donne sarebbero passate. Quando egli si parò loro davanti, esse rimasero sbigottite ed il cavaliere cercò di rassicurarle con franchezza e di conversare con loro del più e del meno, nel modo meno rozzo che gli riuscì.
Quando rimasero sole, Anna volle sapere dalla figlia cosa ne pensasse di costui, ricevendo questa risposta: "Nè bene, nè male, ma per la verità mi indispone chi rivolge tutte le sue virtù alle imprese militari".
Nei giorni seguenti Sinibaldo cercava di raggiungere Bianca ogni volta che al tramonto sapeva che ella passeggiava in giardino, ma il suo corteggiamento non sembrava dei più felici: le parlava sempre di duelli e scontri avventurosi, dai quali era uscito vincitore. Una volta cercò di coinvolgere la fanciulla offrendosi di portare ai suoi piedi il teschio di chi le avesse arrecato disturbo, con il risultato di farla inorridire. Vistosi respinto, il guerriero coltivò il sospetto di avere qualche rivale, ma le sue assidue indagini non approdarono a nulla. Questa passione non lo aveva certo distolto dalle sue abitudini, dato che ogni momento si cimentava in risse e duelli. Era diventato il terrore dei paesi vicini e solo i feudatari di Collalto sembravano compiaciuti di un campione di tale tempra. Non contento, Sinibaldo ebbe l'idea di presentarsi a Bianca ancora lordo del sangue dei suoi avversari; ella decise così di non passeggiare più alla sera per evitare di incontrarlo ed egli se ne risentì non poco.
Ildegonda apprezzava invece la sua vicinanza, facendosi da lui scortare durante le cavalcate intorno alla lussuosa residenza oppure per i paesi vicini; nel passato egli era stato ministro delle sue torbide vendette. Un giorno di festa la contessa tornava dalla messa celebrata in una chiesa dei dintorni e decise di fare un pezzo di strada a piedi, sicchè anche Sinibaldo smontò da cavallo camminando al suo fianco; gli armigeri li seguivano a passo d'uomo restando discosti intorno alla carrozza vuota. Avvicinatosi alla dama, lo scudiero approfittò della circostanza per confidarle l'affanno che lo affliggeva, nè ebbe riguardo ad aggiungere i suoi sospetti sui motivi dell'indifferenza della fanciulla, che egli poteva attribuire solo ad un segreto affetto che la avrebbe legata ad altri. Guai se egli avesse scoperto questo rivale ! Ildegonda ascoltava in silenzio, tenendo lo sguardo basso, poi si scosse e gli promise di interessarsi al suo caso; Sinibaldo sorrise contento.
Trovatasi a tu per tu con la graziosa ancella, Ildegonda le chiese di metterla a parte degli arcani del suo cuore. Bianca la deluse alquanto, rivelandole la semplice verità: disse di non avere sentimenti particolari per nessun uomo.
"E Sinibaldo lo sposereste ?" - la incalzava Ildegonda. "Santo Cielo, quell'uomo che non pensa che al sangue !" - ribatteva Bianca. "Allora, qual'è colui che incontra i vostri favori ?" E di rimando: "Mia signora, potrei giurarle che al matrimonio non penso neppure e desidero restare sempre libera". La contessa scosse il capo contrariata: "Libera, libera !" - esclamò con asprezza, assumendo un'espressione torva. Il colloquio fu riferito all'interessato senza scrupolo, aggiungendovi toni di dileggio e di sarcasmo che non si erano usati. Lo scudiere si morse le mani dal dispetto, passando dall'amore all'odio. Decise comunque di stare in guardia contro il rivale che pensava di avere, per poter sfogare su di lui l'ira a stento trattenuta.
Dopo qualche mese successe un triste evento: Anna passò a miglior vita. In punto di morte, chiese di conferire con il conte, il quale le voleva bene come a una madre. Egli accorse premuroso e pieno di dolore ad ascoltare le sue ultime volontà, così Anna gli porse la mano debole e scarna, riuscendo soltanto a sussurrare: "Vi raccomando mia figlia". A lungo Bianca pianse di nascosto, nè si poteva consolare.
Il cuore della contessa era tuttavia sordo davanti a tali pene ed incline solo a soddisfare i suoi capricci. Dopo appena un giorno la giovane dovette riprendere servizio, sopportando ciò che ad altri sarebbe risultato impossibile. Bianca impiegava varie ore a sistemare il capo della padrona con le ricercate acconciature che questa esigeva, ma subito doveva portare qualche modifica, per le mutevoli fantasie che non la rendevano mai contenta. Per quanto si prodigasse nel venire incontro ai suoi gusti, Bianca veniva investita da una sfilza di rimproveri. "Ignorante, incapace" - si sentiva apostrofare, ma certo non osava replicare, anzi raddoppiava gli sforzi e pregava il Cielo perchè le infondesse abbastanza talento da assolvere i suoi compiti. La dolce fanciulla non si accorgeva che il motivo dei maltrattamenti era la rara grazia del suo volto e la purezza del suo animo: nessuno che la conoscesse mancava di apprezzare le sue doti, con grande scorno per l'invidiosa contessa.
Il nobile Guiscardo decise un giorno di prendere per sè un vigoroso destriero barbaro, che volle addestrare di persona usando della sua speciale perizia. Mentre lo montava in uno dei cortili, l'animale imbizzarrito lo disarcionò facendolo sbattere con la testa sul suolo pietroso, sicchè l'uomo rimase per terra tramortito. Ildegonda e Bianca, che assistevano alla scena affacciate ai balconi, levarono acute grida. Bianca accorse per prima e, strappato un lembo dal proprio velo, lo bagnò nell'acqua fredda per fasciargli il capo sanguinante. La tremante Ildegonda ed i domestici provvidero a stendere il conte sul suo letto; riavutosi, le due donne piansero di gioia, ma Ildegonda riteneva giustificate solo le proprie lacrime di sposa, leggendo in quelle di Bianca un ambiguo segnale. Il chirurgo tolse il velo della giovane - dove si era sparso del tiepido sangue - per medicare la ferita, ma il conte lo trattenne nelle mani. Volle allora sapere di chi fosse e Bianca rispose con un sorriso. Guiscardo commentò: "Non me ne meraviglio, so quanto mi ami !"
Bianca di Collalto
 Ildegonda sentiva vampate di fuoco arderle nel petto e cercava di spiare i cenni sul volto della fanciulla. Era giunto intanto anche Sinibaldo, che osservava la scena poco discosto; anch'egli giudicò eccessive quelle premure e rimuginava: "Ella per me non avrebbe fatto altrettanto, dice di non amare nessuno, eppure smania per il conte". Vari pensieri lo coglievano; meditava di rivelare tutto alla contessa, che non lasciava impunita la minima colpa e si amareggiava di non poter attuare contro il conte quei propositi di vendetta a lungo covati. Venne il momento che il truce cavaliere avvicinò la dama mostrandosi accigliato e desideroso di parlare. "Che hai ?" - ella gli chiese. "Voi dovreste saperlo" - egli disse a mezza voce. "Da parecchio tempo conosco i tuoi tormenti" - ribattè la dama. "Ma ora c'è dell'altro ... non avete veduto anche voi ?" - sbottò il cavaliere. "Taci, demone infernale, non dire altro". Ildegonda era un fertile terreno dove allignava il seme della vendetta e Sinibaldo pronto ad approfittare di qualsiasi avversità fosse toccata alla povera giovane.
Guiscardo, una volta guarito, le fece qualche dono, rinfocolando le gelosie della moglie, la quale era fin lì riuscita a dissimulare le sue passioni. Decise invece di venire allo scoperto e con un artificioso sussiego rivolse al consorte la richiesta di allontanare Bianca dal castello, con il pretesto di non essere contenta dei suoi servigi. Rimasto un poco in sospeso, il conte le rispose: "Voi scontenta di Bianca ? Che male può aver fatto quella dolce, gentile, angelica creatura ? Se non la volete più vedere vi accontenterò, ma ricordatevi che io l'amo come una sorella e che sua madre, a cui devo tanto, me l'ha raccomandata sul letto di morte. Quand'anche sarà partita, ovunque avrà trovato riparo, io non la abbandonerò. Piuttosto, cara, vi consiglio di moderare le vostre pretese ed il vostro focoso carattere !"
La contessa a malapena riuscì a mascherare la sua ira. Non osò controbattere le parole del consorte, ma prese quelle premure - per una da lei giudicata una semplice serva - come una prova ormai certa dei suoi sospetti, abbandonandosi a foschi pensieri. La povera Bianca fece subito le spese di tali dissapori. Obbligata a sbrigare lavori tediosi senza sosta, tenuta ad osservare severi limiti di tempo, addirittura percossa, lavorava anche di notte seduta al telaio, nè poteva comunicare quasi con nessuno e cominciò addirittura a perdere la salute. Colta da disperazione, chiese alla padrona di poter partire, ma Ildegonda temendo di facilitare in tal modo i contatti tra la fanciulla ed il conte, disse di no. Bianca contava sempre su se stessa, ma stavolta non sapeva più come regolarsi; pensò che altro non rimaneva se non rivolgersi fiduciosa al conte in cerca di aiuto. Scrisse così questo biglietto:
"Signore ! Ho bisogno di parlarvi da sola per un attimo.
l'infelice Bianca"
Per recapitarlo si rivolse ad un vecchio domestico, uso ad accompagnare il conte a caccia e nelle gite. A Guiscardo non fu difficile immaginare i crucci che tormentavano la sventurata, così si mise a pensare come tenere l'incontro e si infilò il biglietto in tasca senza badarvi. Ildegonda, che passava il tempo a sorvegliare i movimenti di Bianca e del marito, non esitò a frugare nelle sue tasche, sicchè mise le mani sulla missiva. Inutile dire il furore che la colse e quali terribili propositi le vennero in mente; meditò però di reperire prove più concrete sull'infedeltà del consorte, per poter giustificare davanti al mondo i suoi atti.
Chiesto consiglio al fedele servitore, Guiscardo si orientò a vedere Bianca nell'unica ora in cui non era sorvegliata dalla moglie, ovvero di notte. Quando, verso mattina, Ildegonda gli sembrò immersa in un sonno profondo, salì le scale e trovò la sua protetta intenta al telaio, mentre ricamava una veste.
Ella gli va incontro dicendogli: "Signore, perchè a quest'ora ?"
"Non ho saputo trovarne un'altra di migliore" - le risponde.
"Orbene, conoscete la ragione che mi ha spinto a chiedere di voi ?"
"Capisco bene - la rassicurò Guiscardo - vedo quanto vi pesa il trattamento che mia moglie vi riserva. Sono qui per dirvi che sto cercando un accomodamento a questa spiacevole situazione. Potrei consigliarvi il ritiro in un chiostro, ma potrebbe esservi più gradito il matrimonio con qualcuno dei miei vassalli. Certo, la vostra lontananza mi procurerà dispiacere".
"Voi siete il mio padrone, cui da sempre obbedisco di buon grado.Se avete deciso di darmi in moglie, vi prego, non promettetemi a Sinibaldo ... vi raccomando, non tardate ad intervenire, perchè potrei anche morire" - e così dicendo Bianca si gettò ai suoi piedi. Ma Ildegonda non dormiva. Avendo immaginato l'incontro furtivo, si alza dal letto e, munita di pugnale, raggiunge la stanza dove coglie i due nell'insolito atteggiamento. Guiscardo, vedendola avanzare minacciosa, la prende per il braccio e la affronta con queste indignate parole: "Che fate signora ? Con queste vili maniere volete ancora infierire contro questa poveretta ? Osate persino attentare contro la sua vita in mia presenza ? Non sono stato chiamato qui per sentimenti disonorevoli, ma a causa delle angherie che deve subire da voi, nè è l'unica tra il personale che si lamenta della vostra fierezza. Sono al corrente dei severi castighi che ordinate contro chi non vi obbedisce abbastanza e contro chi ritenete che non vi rispetti. D'ora in avanti conoscerete quella giustizia che le vostre crudeltà mi impongono di usare. Qui dentro siete odiata da tutti e se per troppa bontà e per cieco amore ho soddisfatto le vostre brame, ora vi ordino in primo luogo di portare rispetto per Bianca. Ben presto ella partirà da Collalto per godere di quella tranquillità che la sua docile indole merita".
Ildegonda si mordeva le labbra di rabbia e di vergogna, ma sembrava colpita dalla fermezza del discorso. Con voce mezza piangente chiese perdono, ma supplicò di non far partire Bianca, anzi si impegnò a trattarla non più come cameriera, ma come amica. Il conte restava in silenzio e guardò Bianca che pareva stupita ed incerta; poi, seguendo l'innocenza del suo animo, ella prese la mano che un momento prima voleva ferirla e la baciò. Supplicò il perdono della padrona, chiedendole di aver dimostrazione della sua buona disposizione d'animo e spiegò come fosse felice di rimanere, giacchè in quel castello era nata e vi si trovavano le persone a lei più care. Sentito questo, Ildegonda baciò Bianca.
Dopo di allora la contessa mutò il suo comportamento un po' con tutti, ma questi fatti non erano rimasti un segreto nel castello. Le chiacchere mutavano a volte i contorni dell'avvenimento e qualcuno colse l'occasione per malignare: si trattava di Sinibaldo, perplesso non poco per il voltafaccia della nobildonna. Porgendole una volta il braccio mentre scendeva da cavallo, le rivolse questa battuta: "Signora, non vi riconosco più !" "Al contrario, dovresti conoscermi" - ella ribattè. Come un vasto oceano in quiete prima della tempesta, Ildegonda stava segretamente studiando il modo per togliere per sempre di mezzo colei che le procurava invidia e gelosia: aveva preparato un micidiale veleno che colpiva senza lasciar traccia, in modo che la morte di Bianca potesse sembrare naturale.
Il conte di Collalto, allora feudatario del Sacro Romano Impero, fu chiamato ad unirsi alle truppe germaniche che discendevano a combattere in Italia. Subito Sinibaldo chiese di unirsi a lui, assecondando il proprio spirito guerriero e cercando evasione dalle sue pene amorose, tanto più che sarebbe rimasto a fianco di chi gli sembrava essere il suo rivale in amore. Alla testa di trecento lance il feudatario usciva dal castello, nella costernazione generale e lasciando Bianca in lacrime. L'altera ed inflessibile Ildegonda appariva ben poco commossa, anzi era ancora risentita per la recente umiliazione. Passato il ponte levatoio, Guiscardo volle abbracciarla e baciarla un'ultima volta, dicendole: "Vi affido la mia corte, governatela rettamente facendovi amare e soprattutto vi raccomando Bianca".
La contessa sentì rinfocolare il suo odio davanti a tale premura, che trovava eccessiva e fuori luogo; rientrando nel castello si rivolse all'ancella sussurrandole con il fiele a fior di labbra: "E' giunto il tempo, o scellerata, che mi ripagherai delle tante offese". Bianca sentì un brivido gelido scorrerle per le ossa e si vide perduta.
Ildegonda rimasta padrona del castello poteva appagare il suo indescrivibile orgoglio e scatenare la sua ferocia. Puniva torturando con la corda anche le lievi mancanze, sprofondava in umidi e tenebrosi sotterranei chi tardasse ad eseguire i suoi ordini, ma la sua mira principale volgeva altrove e la vendetta tardava solo per trovare esecuzione in forme insolite e crudeli.
Una mattina Ildegonda era seduta sulla sua seggiola dorata, mentre la sfortunata ancella le sistemava i capelli e le intesseva dei fiori tra le trecce; la contessa, come al solito, non gradiva l'aspetto dell'acconciatura, mettendosi a sbraitare e a pestare i piedi per terra. Riferisce la tradizione che, esasperata dalle vessazioni,Bianca alzò le braccia al cielo ed Ildegonda, che la osservava allo specchio, equivocò il suo gesto come se la poveretta nel gesticolare con le dita le avesse fatto le corna; a ciò si attribuisce la cagione della fine della sventurata. Nell'indicibile furore che la colse, l'irascibile tiranna ruppe gli indugi e diede corso ai suoi spietati propositi. In uno dei recessi più nascosti del castello fece erigere un muro distante poche spanne da quello della stanza, in modo che si ricavasse un'intercapedine, dentro la quale ella stessa cacciò dentro la sua vittima innocente, trascinandola per i capelli. Poi fece chiudere la nuova parete lasciando solo un minimo pertugio, dal quale faceva passare un po' di cibo alla prigioniera murata viva.
Bianca rivolgeva rimproveri al cielo perchè permetteva tale crimine scellerato e quando sentiva avvicinarsi la castellana aguzzina supplicava pietà, ma invano: questa la alimentava solo per protrarne i tormenti, andando spesso ad ascoltare compiaciuta i suoi gemiti, ridendo e sbeffeggiandola. Finalmente si sparse la notizia del ritorno del conte, ma Ildegonda non rinunciò a portare a compimento il misfatto, ordinando di otturare il pertugio. Dopo quattro mesi di agonia, Bianca perì. I pochi venuti a conoscenza del terribile segreto furono minacciati di morte e la stanza fu accomodata in modo che non si notassero alterazioni.
Guiscardo, appena ritornato, stupito di non vedere la sua protetta, subito interrogò tutti riguardo a tale incomprensibile assenza. La consorte spiegò che ella era fuggita senza lasciare traccia, suscitando l'ira disperata del conte ed il suo fermo proposito di ritrovarla: da una parte sospettava della crudeltà della moglie, dall'altra non riusciva a trovare un motivo ragionevole che avrebbe potuto muovere questa ad un gesto estremo.
Per qualcun altro il colpo fu altrettanto forte; Sinibaldo era tornato carico della gloria conquistata sul campo di battaglia, speranzoso di riabilitarsi agli occhi dell'amata. Si aggirava in pena per il castello come un segugio in cerca della perduta preda: si pentiva persino di essere partito. Fissava la contessa e gli pareva di leggere qualcosa di terrificante nei suoi occhi. "Signora, posso sapere che ne è stato di Bianca ?" - le sussurrò in un orecchio al momento opportuno. "Siamo tutti e due vendicati" le rispose la donna con freddezza, tenendo basso lo sguardo. Il cavaliere rimase impietrito e a passi incerti si ritirò; il compiacimento che aveva provato davanti ai maltrattamenti sofferti dalla fanciulla, era in realtà dovuto alla speranza che ella finalmente gli si arrendesse. "Sciagurato" - si diceva, colto dal rimorso - "Hai voluto gettare la scintilla della gelosia nell'animo di quella vipera ed ecco cos'hai provocato".
Scesa la notte, il conte passeggiava per il giardino colto da gravi pensieri; la luna offuscata da tenui nebbie rischiarava appena le mura merlate e le alte torri. Vede avanzare una pallida figura ... guarda le sue forme, le sue vesti, il suo volto: è Bianca! Le corre incontro per abbracciarla ma non riesce a stringerla perchè è solo uno spettro. "Ah, è morta! E Dio sa come !".
In quell'istante l'aria viene scossa da un lungo grido acuto: tutti accorrono e vedono la contessa riversa al suolo. Soccorsa, alla fine rinviene, ma ella, mezza smorta, si guarda intorno con gli occhi sbarrati. Sospira, si agita, ma si rifiuta di spiegare che le succede. La notte dopo il conte riposa a fianco della sposa. Uno schianto devastante prorompe dai sotterranei, scuotendo il castello dalle fondamenta. Nell'aria rimbomba il fragore di catene e si alzano lamenti angosciosi. La servitù vede scorrere minaccioso ai piedi dei loro letti un enorme fantasma con in mano una torcia ardente. Si dirige al talamo nuziale e va a sedersi al fianco dell'assopita Ildegonda. La fissa con due occhi fiammeggianti, la afferra per un braccio agitandola per svegliarla. Ildegonda accende terrorizzata un lume e riconosce Bianca.
Nei giorni seguenti le spaventose apparizioni continuano a sconvolgere il castello.
L'agitazione coglie tutti, sicchè al conte diviene chiaro che solo un esecrando delitto della moglie può essere all'origine di quegli immani fenomeni. Ildegonda, incalzata con fermezza dalle accuse, cede sfinita e confessa il misfatto. Il conte si precipita nell'orrenda prigione seguito con affanno da Sinibaldo e, abbattuto il muro, trova le reliquie dell'infelice Bianca. A tale vista, i due versarono calde lacrime. Sinibaldo, abituato a far strage di uomini, vedendo i resti dell'unica che aveva amato, restò pallido e paralizzato con gli occhi che sporgevano dalle orbite, nè poteva parlare per il dolore. Il conte potè solo dare degna e solenne sepoltura all'innocente, così Bianca non apparve più a nessuno, tranne che alla contessa, cui non restava che implorare perdono al cielo, tormentata dai rimorsi.
Si vedeva spesso Sinibaldo ai piedi della tomba della giovane, in meditazione.
Il nobile Guiscardo accettò l'invito del signore di Verona ad assistere ad un torneo per cambiare un po' aria, negando alla moglie il permesso di seguirlo, dato che la sua presenza gli riusciva sempre più pesante. Ildegonda, rimasta sola, passeggiava per il salone muta e lenta, mentre la sua corte si teneva rispettosamente alla larga. Sinibaldo le si fece vicino e le chiese apertamente se continuava a vedere l'ombra di Bianca. "Taci, non nominarmela nemmeno, che continua a perseguitarmi" - rispose. Di rimando, il cavaliere le chiese come pensava di affrontare la situazione e - saputo che alla donna non restava che il conforto del pianto e della preghiera - promise di aiutarla; sarebbe passato a mezzanotte per la sua camera ad insegnarle un rimedio segreto.
Calava la notte, carica di lugubri presagi. Raffiche di vento rabbioso fischiavano per gli angoli dei muri facendo muggire l'aria ed una pioggia ostinata cominciò a scrosciare come in un diluvio. Lampi di luce lambivano il cielo rigonfio di nuvole nere e Sinibaldo che ammirava la tempesta dal balcone tra sè e sè la benediva.
Giunta l'ora fissata, Sinibaldo scese le scale a tentoni sino alla camera della contessa e picchiò sulla porta. Ildegonda gli aprì dicendosi grata per il suo arrivo, giacchè era impaurita dalla furia del tempo, che sembrava preannunciare una visita spettrale.
"Contessa! Siamo tutti e due colpevoli, perchè io ho destato in voi crudeli sospetti" - dichiarava Sinibaldo. "Oh no, io stessa ..." - cercava di ribattere la donna.
"La vostra confessione mi solleva. Vi promisi di insegnarvi come far cessare le apparizioni. Dovete seguirmi nella stanza dove avete fatto morire Bianca", riprendeva Sinibaldo. "Cosa? Io là dentro? Dio mio !" esclamò Ildegonda.
"Non temete: con speciali preghiere che vi dirò, otterrete in grazia la pace". Detto questo, Sinibaldo prese un fanale e fece strada alla contessa per le scale, conducendola nella stanza fatale. Entrati dentro, appoggiò per terra il lume e con un ghigno sulle labbra le chiese: "State tremando ?"
"Oddio, mi pare di vederla ancora stare lì" - ella ribattè. "Scellerata, adesso tremi ?" -irruppe Sinibaldo con il fragore di un tuono e continuò - "Dovevi tremare prima, al solo pensiero del tuo esecrando delitto! Sai perchè ti ho portata qua ?" "Pietà !" -implorava la contessa piena di terrore.
"Guarda, empio mostro ! - digrignava l'energumeno, girandola per il collo verso il luogo del misfatto - non ho la fortuna di farti fare una morte altrettanto atroce".
Tutta la forza che Ildegonda impiegò nell'urlare fu vana per l'infuriare del maltempo e per l'isolamento del locale. Tratto il pugnale dal fodero, l'uomo riempì di ferite il corpo della donna onde prolungarne lo strazio, simile ad una tigre quando infierisce sulla preda. Dopo qualche pausa, tornava sui suoi passi a saziarsi di sangue, arrivando a mutilare le membra di costei. Finita la carneficina, scese al cimitero a piantare il pugnale sulla tomba dell'amata. Gli scrosci di pioggia gli lavarono l'armatura dal sangue e - con il pretesto di eseguire un ordine della contessa - si fece aprire le porte dileguandosi in groppa del suo destriero.
Davanti all'orribile spettacolo del cadavere maciullato, il conte fu mandato a chiamare con urgenza. Guiscardo ordinò di far cercare Sinibaldo, accusato dalla sua stessa fuga, ma dalle notizie ottenute si seppe che il cavaliere si era imbarcato a Venezia per raggiungere la Terra Santa. Chiuso nella sua mesta solitudine, qualche volta si sentiva il conte esclamare tra sè e sè: "Ah, Ildegonda, la tua punizione è stata giusta !"
L'ombra di Bianca non mancò in tempi successivi di manifestarsi ai discendenti dei Collalto, ma senza provocare agitazione; Bianca compare solo in speciali circostanze, vestita di bianco o di nero a seconda che gli eventi annunciati siano gioiosi oppure dolorosi. Non ci fu membro dell'illustre famiglia o del personale a servizio che non dicesse di aver incontrato l'ombra della fanciulla.
Ma queste visite ebbero luogo solo finchè durò la Veneta Serenissima Repubblica.
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