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Dialogo


NOTE A DIFESA DELLA REPUBBLICA E DEL PATRIZIATO VENETO
 
In risposta a frequenti accuse mosse contro Venezia


Venezia sotto forma di Giustizia, rappresentata da una donna seduta su due leoni,mentre ai suoi piedi ci sono due figure umane che rappresentano la rivolta civile (a destra) e la rivolta militare (alla sinistra). Sotto tutti si vede il mare in tempesta. La Giustizia “veneta” sorregge con la mano destra la spada, mentre con la mano sinistra mostra un cartiglio sul quale c’è scritto: Fortis, Iusta, Trono, Furias, Mare, Sub Pede, Pono. A significare:Io forte e giusta tengo sotto ai miei piedi il mare in tempesta.

“La Repubblica Veneta era retriva e oscurantista: non può definirsi avveduta la classe di patrizi che mise all'indice il libro del Beccaria perché contrario alla pena di morte”
“Vanno riconosciute le colpe dei reggitori veneziani per il crollo della Serenissima. La storia insegna che se le cose avvengono, a determinarle non è mai il caso, ma sono conseguenza di scelte sbagliate.  Negli ultimi giorni della Serenissima molti esponenti della classe patrizia si erano adagiati su se stessi, avendo più a cuore i propri interessi e beni che quelli dell'intero stato veneto, che sciolsero in quattro e quattr’otto senza tanti problemi”.
“Anche i Veneziani avrebbero rubato molte opere d'arte”.
“I patrizi hanno costruito grandi patrimoni immobiliari con i privilegi della loro casta essendo esenti dall'estimo in terraferma”. 
“I Veneziani hanno mantenuto lo status quo di molte città dopo la loro adesione senza fare una vera opera di integrazione”
“Venezia aveva truppe mercenarie al soldo e non una milizia nazionale”.
“Il potere politico era riservato ai cittadini veneziani”. 
“La serrata del maggior consiglio 1297 rese immobile e impossibile il cambio della classe dominante”. 
“Dopo Agnadello e Lepanto, Venezia ha fatto di tutto per non essere coinvolta in altre guerre usando una pura politica da sensale spostando gli equilibri delle alleanze europee rischiosamente”.
“Non si può certamente negare che i patrizi si siano venduti prima all'Austria e poi ai Savoia pur di vedere riconfermati i loro titoli e ovviamente sempre dietro compenso”.
“Il risultato confuso di quello che siamo è la diretta conseguenza delle traversie politiche ambigue di Venezia. Nessuno nega la stupenda e millenaria storia di Venezia però i veneziani non erano stinchi di santi”.


“La Repubblica Veneta era retriva e oscurantista: non può definirsi avveduta la classe di patrizi che mise all'indice il libro del Beccaria perché contrario alla pena di morte”.

Il sequestro del libro “Dei delitti e delle pene” fu un provvedimento giudiziario cautelativo che sarebbe stato adottato da qualunque altro Stato dell’epoca e che ancor oggi possiamo definire giusto e opportuno. Singolare è la fortuna dell’opera di Beccaria; Torcellan scrive che nel primo mese di vendita in terra veneta, ne era stata venduta la bellezza di 520 copie, ma il 27 agosto 1764 gli Inquisitori di Stato mettevano il libro al bando.  Non si trattava di vera censura ideologica, ma piuttosto di una misura precauzionale in quanto s’ignorava chi fosse lo scrittore anonimo che aveva messo sotto accusa il rito inquisitorio, essenziale per la difesa dello Stato nell’ordinamento veneto.  Si temeva che dietro l’anonimato si celasse un suddito veneto intenzionato a provocare disordini in relazione all’arresto nel 1761 del N.H. Angelo Maria Querini per attività politica sovversiva.  L’edizione veneta dell’opera potrà uscire solo nel 1781; tra i 509 nomi degli associati che la promossero, compaiono quelli degli Inquisitori che diciassette anni prima l’avevano fatta sequestrare.  La circostanza non è casuale: le filosofie illuministe trovavano ascolto negli ambienti nobiliari e borghesi, anche se la classe dirigente patrizia, ancora intrisa di Cristianesimo, dimostrava una certa diffidenza verso utopie che, mentre promettevano una mitica felicità per l’intero genere umano, producevano l’effetto immediato di scardinare l’assetto morale della Nazione.  La sensibilità verso le tematiche umanitarie e legalitarie era non di meno un tratto distintivo della cultura giuridica veneta.  Restava da capire che rinnovamento era possibile senza dar adito a movimenti rivoluzionari.  Nel 1789 i tre Aggiunti sopraintendenti al sommario delle leggi consegnavano al Senato una proposta di riordino del sistema penale, con cui la commissione onorava l’incarico ricevuto un paio d’anni prima; tra l’altro si prevedeva di riservare la pena capitale a pochissimi casi.
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“Vanno riconosciute le colpe dei reggitori veneziani per il crollo della Serenissima. La storia insegna che se le cose avvengono, a determinarle non è mai il caso, ma sono conseguenza di scelte sbagliate.  Negli ultimi giorni della Serenissima molti esponenti della classe patrizia si erano adagiati su se stessi, avendo più a cuore i propri interessi e beni che quelli dell'intero stato veneto, che sciolsero in quattro e quattr’otto senza tanti problemi”.
   
E’ vero che se le cose avvengono, a determinarle non è mai il caso, ma esse rappresentano le conseguenze di scelte sbagliate.

In questo caso, la scelta errata fu fatta da due potenze militari che disponevano di espansione territoriale, numero di cittadini, risorse economiche e apparato bellico abbondanti e molte volte superiori rispetto a quelli della Veneta Serenissima Repubblica.  Com’è noto, con i preliminari segreti di Leoben (16-17 aprile 1797) e la successiva ratifica con il trattato di Campoformido (17 ottobre 1797) Francia ed Austria smembrarono lo Stato Veneto e se lo spartirono, determinandone la fine dopo 14 secoli di gloriosa indipendenza, dopo che esso aveva intrattenuto buone relazioni con entrambe le parti e con il resto del mondo conosciuto.  Nel maggio 1797 Napoleone, mentre costringeva Venezia a cambiare la sua Costituzione, facendo abdicare Doge e Maggior Consiglio in favore di una municipalità provvisoria, in realtà aveva già venduto sottobanco alla tanto odiata Austria queste terre, con gran scorno degli ingenui progressisti che avevano creduto in lui.  Dal 1796 entrambi gli eserciti sconfinavano in terra veneta, secondo una prassi che consentiva questi movimenti quando rappresentavano un passaggio obbligato nelle manovre militari.  Venezia, consapevole di non avere i mezzi per fronteggiare una guerra furiosa e pericolosissima (che non la riguardava in nessun modo), aveva dichiarato la sua neutralità, purché i contendenti osservassero gli accordi assunti.  Il 1° maggio, quando le truppe francesi minacciavano ormai da vicino la laguna, Napoleone dichiarò alla pacifica Repubblica una strana guerra  in cui si ordinava ai militari francesi non solo di calpestare la sovranità di uno Stato legale, ma addirittura di cancellarne l’identità, abbattendo l’emblema nazionale del Leone Marciano. La direttiva politica della soppressione di uno Stato libero e legale fu inopinatamente mantenuta ferma durante il Congresso delle potenze vincitrici a Vienna nel 1815, che restaurò tutti gli altri Stati anteriori ai due decenni di guerre napoleoniche (costate all’Europa milioni di morti), ancor oggi considerate giuste perché “liberarono” il vecchio Continente dal Cristianesimo ed instaurarono i nuovi “ideali” liberal-illuministi.

Imputare alla sola Venezia l’incapacità di respingere l’invasione francese fa sorridere, dato che Napoleone travolse tutti gli eserciti nemici, mise fine al Sacro Romano Impero che durava da mille anni, proclamò se stesso Imperatore del globo, devastò gli sterminati territori russi, umiliò persino il sentimento nazionale germanico, al punto che Fichte si sentì in obbligo di riscattare la dignità della sua Prussia scrivendo i “Discorsi alla Nazione Tedesca”, innescando così quello che il secolo successivo conobbe come il nazionalismo per antonomasia.

Nessuna colpa di rilievo può essere addebitata al Patriziato Veneziano: quasi nessuno scappò, i governanti restarono al loro posto, con il cuore affranto si fecero signorilmente da parte e badarono a (ri)consegnare il potere a quel popolo che, come emerge dagli atti ufficiali, essi sempre considerarono titolare della Sovranità Nazionale (che il Maggior Consiglio custodiva solamente). Caso unico nella storia, quella classe dirigente che visse in funzione dello Stato, in pochi decenni si spense, quasi a suggellare un’identificazione totale con la Nazione a cui la storia sembrava voler negare il diritto a sopravvivere.

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“Anche i Veneziani avrebbero rubato molte opere d'arte”.

E’ un luogo comune trito e stucchevole, i Veneziani non hanno rubato nulla. Compravano o scambiavano quello che a loro serviva o piaceva (ed avevano la capacità e gli strumenti per farlo).  Di rado hanno portato con sé ( e adornato la Città) con qualche significativo trofeo di guerra, come le statue dei leoni del Pireo (oggi posti davanti l’Arsenale), oppure come i Cavalli della Basilica o i Tetrarchi all’angolo della stessa, salvati dalle distruzioni avvenute a Bisanzio durante la IV Crociata.  Nell’assalto finale in città, è testimoniato come i comandanti veneti si fossero spesi per moderare le inevitabili violenze e ruberie che si consumavano in questi casi: i feudatari europei non ebbero altrettanti scrupoli. La più importante documentazione - prodotta per osservazione diretta - è quella prodotta dal Maggiordomo francese Villarduine e depone in favore dei Veneziani.  Sul ricordo di quest’episodio si sono gettate tonnellate di melma da parte della scuola italiana.  Si è voluto dimenticare che la diversione della Crociata dalla Palestina a Costantinopoli fu richiesta in modo insistente dall’erede al Trono imperiale Alessio, che voleva riportare al potere il padre spodestato dallo zio.  La spedizione militare fu concordata tra lui ed i feudatari francesi e solo successivamente Venezia vi aderì. Negli ultimi decenni Bisanzio si era inoltre indebitata alla grande con la nostra Repubblica, avendo quel governo per ben due volte assaltato, saccheggiato ed imperversato nel Quartiere veneto della Città levantina, uccidendo ed imprigionando, senza serio motivo e in violazione delle norme internazionali.

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“I patrizi hanno costruito grandi patrimoni immobiliari con i privilegi della loro casta essendo esenti dall'estimo in terraferma”.  
Il Patriziato Veneziano rappresenta tuttora la più prestigiosa classe dirigente che abbia operato nella storia umana, così come la Veneta Serenissima Repubblica fu il più perfetto modello di Stato democratico, perché davvero rappresentativo del popolo.  Il potere, allora, si atteggiava come vera Autorità, in quanto riconoscibile e responsabile davanti al popolo, fungendo d’esempio per tutti.

I  privilegi nel mondo antico erano diffusissimi e tenevano in piedi l’intera società.  Erano giusti e necessari perché meritati, a differenza di quelle caste occulte che oggi dominano le masse, vivendo di privilegi ingiustificati camuffati da diritti (tecnocrazia).  Il Patrizio Veneziano era animato da sincera Fede in Gesù Cristo, dandovi costante e concreta testimonianza, e l’insegnamento Evangelico era il sicuro riferimento morale delle sue scelte, persino in campo giuridico e giudiziario. Nel caso specifico, la politica fiscale veneziana consentì tra Sei e Settecento uno sviluppo eccezionale della produzione agricola e manifatturiera: la Villa veneta diventerà un mito in tutta Europa, perché coniugava la forte valenza economica come azienda ed epicentro organizzativo del territorio, con lo splendore incantevole delle sue forme.  Non erano residenze esclusive, bensì “la casa” dell’intero contado: tutto intorno non si vedeva un solo recinto.

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“I Veneziani hanno mantenuto lo status quo di molte città dopo la loro adesione senza fare una vera opera di integrazione”.  

Lo status quo delle città era, in una parola, la loro Libertà.  Venezia può essere giustamente accusata di aver pervicacemente mantenuto e garantito il Bene delle città sorelle minori, rifiutandosi di aderire al modello delle Monarchie assolute che in Età moderna avevano proceduto ad un fortissimo accentramento del potere in capo alle strutture unificate dello Stato. Le riforme di Maria Teresa, p.e., realizzarono il servizio militare obbligatorio, un’intensa burocratizzazione e la scuola di Stato, tutte cose che Venezia giudicava autoritarie. Giova ricordare come tutte le città si aggregarono alla Repubblica attraverso dedizioni volontarie, a seguito di conflitti nei quali mai Venezia aveva aggredito nessuno, ma solo difeso la sua legittima sfera di interessi a livello internazionale (il più delle volte contro aggressioni altrui).  Con la dedizione, Venezia in sostanza recepiva gli Statuti locali appena correggendoli nei dettagli e sempre li rispettò, ricambiata dalla riconoscenza generale dei sudditi e delle Comunità aggregate (Dominii).  Qualche storico indica come elemento di debolezza l’antichissima struttura federale dello Stato Veneto: così si può ragionare se si considera punto di forza la costrizione e punto di debolezza il consenso. La saggezza, però, insegna il contrario.  La Repubblica in realtà governava con l’affetto e lo scrupolo di una Madre.  L’integrazione nelle Terre Venete era eccezionale: Veneti, Friulani, Istriani, Dalmati, Sloveni, Croati, Bocchesi, Sudditi della Dominante, si sentivano rispettati nella loro identità in questo quadro composito, nondimeno erano animati da un Amor di Patria incredibile, che immancabilmente dimostravano in guerra, nelle carestie, nei momenti difficili. Tuttora, Venezia  è rimpianta da Bergamo fino alle Isole Ionie. Sul piano economico, fu incredibile la capacità del Veneto Patriziato di fare di tutte le membra dello Stato un sistema integrato. Ognuno aveva una specializzazione: a Padova l’Università, a Brescia l’industria di armi, alla Pedemontana l’industria tessile, ecc., ecc.

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“Venezia aveva truppe mercenarie al soldo e non una milizia nazionale”.

L’esercito era formato da truppe professionali, specie durante la guerra bisognava ricorrere all’arruolamento anche di stranieri.  Ma vi era anche un robusto apporto di truppa locale, sia per armare la flotta, sia per la difesa locale. Famose le Cèrnide, truppe territoriali di spirito volontaristico. Per attuare una prima difesa dalle aggressioni esterne si erano costituiti questi corpi, formati da contadini che si esercitavano la domenica, addestrati da ufficiali di carriera. In pratica, ogni Comunità aveva il suo piccolo esercito e disponeva di proprie armi, come pure nelle varie città c’erano le Guardie Civiche (ecco, questa è la democrazia impossibile che oggi ci sogniamo…. forse troppo elevata per essere capita).  Non si dimentichino gli Schiavoni: benché fossero Dalmati (soprattutto Bocchesi) di lingua slava, erano in sostanza la truppa scelta dell’Armata Veneta.

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“Il potere politico era riservato ai cittadini veneziani”.

No, era proprio riservato ai Nobili, ma solo ai migliori, perché il sistema politico era imperniato sulla responsabilità (chi sbagliava pagava caro).  C’era un complesso e lungo cursus honorum che continuamente testava e verificava sul campo la capacità politica e gestionale dei singoli. La  Veneta Serenissima Repubblica fu uno Stato perfetto nella misura in cui possono esserlo le cose umane. In sintesi, il Buon Governo è il prodotto di una classe dirigente selezionata e sottoposta a continui ed insistenti controlli: solo questo può permettere ad una compagine statuale di durare 14 secoli, record che difficilmente potrà essere eguagliato.

Pubblicazioni specifiche, come “Giustizia Veneta” (di Edoardo Rubini) possono spiegare i meccanismi specifici di questo funzionamento, come i principi di collegialità, temporaneità e doverosità della carica pubblica. Non si trascurino altri due aspetti essenziali: tutto l’apparato era formato da borghesi non nobili (c.d. cittadini), e svolgeva un delicato ed importante ruolo di controllo.  Il governo locale era comunque retto integralmente da persone del posto, con strutture sia collegiali e rappresentative, sia burocratiche, di antica tradizione, quindi non c’era nessuna invadenza veneziana, ma solo una buona guida.

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“La serrata del maggior consiglio 1297 rese immobile e impossibile il cambio della classe dominante”.

La serrata del maggior consiglio 1297 fu un capolavoro di ingegneria istituzionale (favorita dall’azione di un Doge straordinario quale fu Pierazzo Gradenigo), che suggellava un processo di trasformazione del sistema politico da democrazia diretta a democrazia organica, che abbracciò almeno due secoli (cominciò nel 1100). Il suo maggior merito fu appunto quello di garantire al meglio il ricambio costante della classe dirigente: formando in continuazione i suoi nuovi quadri, il governo disponeva di sempre nuovi gestori preparatissimi e nel contempo teneva ferme le direttive politiche nel corso dei secoli. Il risultato eccezionale fu proprio la stabilità e l’affidabilità del sistema: al bando qualsivoglia personalismo e fazione, ogni cosa subordinata al bene comune, un’identità forte e riconoscibile a livello internazionale, un senso del dovere radicatissimo.

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“Dopo Agnadello e Lepanto, Venezia ha fatto di tutto per non essere coinvolta in altre guerre usando una pura politica da sensale spostando gli equilibri delle alleanze europee rischiosamente”.

Venezia a partire dal Medioevo era il baricentro e il pendolo di tutta la politica internazionale, grazie ad un’eccezionale capacità di mediazione tra le massime potenze: Impero franco, Impero bizantino, Stato Pontificio, Imperi dell’Estremo Oriente, Stati Occidentali, potenze atlantiche, ecc.

Per fare un esempio, la pace storica tra il Papa e l’Imperatore Federico Barbarossa fu caldeggiata e firmata a Venezia.  Il prestigio internazionale di cui godeva l’intero Corpo Diplomatico Veneto era immenso, in Età comunale le Città venete ancora indipendenti chiamavano a governarle Podestà veneziani, nel ‘600 Venezia fu l’unica che si oppose vittoriosa persino alle interferenze improprie del Vaticano nella politica interna, anche grazie a quell’illustre intellettuale veneto del calibro di Paolo Sarpi.  In ogni caso, anche ai tempi di maggior gloria, la guerra fu considerata l’extrema ratio.

L’abilità degli ambasciatori veneziani era leggendaria, proverbiale la loro capacità di raccogliere notizie e trasmettere suggerimenti al Governo Patrio (ancor oggi fungono da esempio a chi voglia intraprendere la carriera diplomatica), i loro resoconti sono  documenti frequentatissimi dagli storici.

Ma soprattutto in politica la Repubblica applicava con costanza le 4 virtù cardinali: Prudenza, Temperanza, Giustizia, Fortezza, sicché essa divenne elemento insostituibile per la stabilità d’Europa e del Mediterraneo. Tutti questi meriti erano riconosciuti al Veneto Governo in primis dai suoi nemici, la Sublime Porta: il Sultano ai suoi ministri imponeva di parlare con gli stranieri solo due lingue: o il Turco, o il Veneziano.

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“Non si può certamente negare che i patrizi si siano venduti prima all'Austria e poi ai Savoia pur di vedere riconfermati i loro titoli e ovviamente sempre dietro compenso”.

La fedeltà e la dedizione totale del patriziato allo Stato Veneto non fu messa mai in discussione neppure dai numerosi mediocri storici che scribacchiano su tante pubblicazioni dozzinali o peggio siedono in cattedra. Si può ricordare come la Nobiltà veneziana continuò a servire il popolo anche quando fu del tutto spogliata del potere, come durante il 1848, quando a proprio rischio e pericolo e pur disapprovando la resistenza ad oltranza contro l’Austria, sostenne in tutti i modi il governo di Daniele Manin.  Un fulgido esempio di integrità morale di cui oggi si sente la dolorosa mancanza.

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“Il risultato confuso di quello che siamo è la diretta conseguenza delle traversie politiche ambigue di Venezia. Nessuno nega la stupenda e millenaria storia di Venezia però i veneziani non erano stinchi di santi”.

Il risultato confuso di quello che siamo è il prodotto del nostro presumere di sapere.  Non si tratta di essere stinchi di santi (oddio! a volte c’erano anche quelli…), l’uomo è di per sé un essere imperfetto.  Il problema è che il sistema politico di allora produceva un’ottima classe dirigente, quello attuale solo un penoso degrado. Venezia sempre usò l’intelligenza e la correttezza nei comportamenti prima che la forza. L’ambiguità diveniva tattica necessaria quando non era possibile dare soluzioni immediata a tanti problemi (la cui soluzione non dipendeva solo da lei). Non si pretende qui di privare nessuno dei propri pregiudizi, ma solo ricordare che la conoscenza della storia richiede tanto tempo e fatica, nonché discernimento rispetto alle tante interessate sciocchezze che circolano.  Per aprire bocca con cognizione di causa è necessario studiare sul testo ancor oggi più veritiero e completo costituito dai 10 volumi della Storia documentata di Venezia di Samuele Romanin (ed. Filippi, Venezia 1975, 3a ed.).  Vi si troverà ampio riscontro su quanto sopra affermato.
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 AGOSTO 2009                                                                                                                                            A cura di
Edoardo Rubini
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