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Linguistica


Comunicato del Consiglio Direttivo di Europa Veneta

L’intervento di Ugo Suman sul Gazzettino del 6 maggio u.s. ha dipinto i Veneti come una tribù di miserabili in balìa della casta dominante; dobbiamo far giustizia di tante banalità, con cui si vuol togliere dignità al nostro popolo.  Ai Veneti va riconosciuta una forte identità, che deriva loro sia da storia e cultura, sia dalla lingua parlata, che hanno precisi caratteri distintivi.  Come spiegava Manlio Cortellazzo nei corsi di dialettologia all’Università, la differenza tra lingua e dialetto è questa: la prima è fatta propria da uno Stato, il secondo no. La scienza qui non c’entra, tant’è che da quando i Catalani hanno deciso di essere Nazione, la stessa parlata ha cambiato etichettatura: ora è lingua. Ogni lingua viva presenta una quantità di varianti locali: nel caso del Veneto sono piuttosto omogenee tra loro.  Il Veneziano, poi, ha sviluppato una significativa tradizione letteraria; fu anche la base della lingua franca diffusa in tutto il Mediterraneo e fu lingua diplomatica presso la Corte Ottomana.
I Veneti furono i primi a scrivere in Volgare nella penisola: le prime testimonianze risalgono al 1.100, il cosiddetto “Italiano” era in realtà il Toscano trecentesco. La Nazione Veneta conta oltre tremila anni di storia, non è un agglomerato artificiale creato dalle società di pensiero tra ‘700 ed ‘800; il Regno d’Italia fu in questo senso messo su dalle baionette napoleoniche (1806-1815), riesumato poi dalle trame internazionali che spalleggiarono le annessioni savoiarde: il fatto compiuto ricevette infine la legittimazione intellettuale dai vari Mazzini e D’Annunzio.
L’etnogenesi dei Veneti risale all’Età del Bronzo; già nel I Millennio a.C. si presentano come Nazione formata in tutti i suoi aspetti, con una propria organizzazione sociale e politica, con usi e costumi evoluti, religione, arte, lingua e scrittura che li distinguono dagli Italici.  Per convincersene basta esaminare i meravigliosi reperti preromani presenti nei numerosi musei della nostra regione, in particolare le oltre 400 iscrizioni venetiche (diffuse in un vasto comprensorio alpino-adriatico), che attestano, peraltro, che il Venetico era difforme dal Latino e affine alle lingue slavo-occidentali. Origini così illustri costituiscono un patrimonio identitario di eccezionale valore: pochi popoli nella storia furono “Nazione” in senso così intenso e profondo.
Lo storico britannico Richard Mackenney s’impressiona nell’annotare che con la guerra di Chioggia, a fine Trecento, patrizi e popolani costruivano insieme le fortificazioni in laguna contro l’assedio genovese (1). Fu questo spirito comune a vincere nei secoli. Durante la guerra contro la Lega di Cambraj, Guicciardini e Machiavelli, testimoni oculari, riportano sbigottiti i continui episodi di eroismo messi in atto per salvare la Patria dall’occupazione degli Imperiali; i contadini veneti si fanno impiccare per non giurare fedeltà a Massimiliano d’Asburgo, dichiarandosi “marcheschi” noncuranti della morte certa, tanti altri s’immolano volontariamente sotto il fuoco nemico per ricostruire i bastioni di Padova battuti senza sosta dalle artiglierie germaniche.  Continuiamo?  Con la calata di Napoleone a fine ‘700 le comunità rurali insorsero contro l’occupazione giacobina dalla Lombardia Veneta all’Istria, a un solo grido: “Viva San Marco!”.
Il gravame ideologico (liberal-illuminista) dell’intervento di Suman si palesa nella sua lettura del rapporto tra Patriziato-Clero-Popolo. Un tempo queste classi erano unite in un blocco indissolubile, credevano negli stessi valori, quelli cristiani. Il grande degrado di miseria ed ignoranza arriverà con la politica classista delle varie dominazioni francese, austriaca ed italiana. Le ville venete non erano solo il luogo della villeggiatura e dello svago: la loro struttura architettonica palesa ancora la loro funzione di enorme azienda agricola, volano produttivo di una vasta area. Non erano circondate né da recinti, né da guardiani, “villa” era villaggio; dimore di intere comunità, quindi, non club esclusivi. Lucio Balestrieri ha esposto nei suoi libri l’imponente sistema economico veneto tra ‘600 e ‘700, che si articolava in un sistema di produzione agricola e di materie prime, industria manifatturiera ed esportazione tramite porti e flotta commerciale. Con l’inventiva ed il sudore della loro fronte la Venetia felix  era già allora prima in Europa.
Manca qui lo spazio per esporre l’ordinamento pubblico e le leggi della Serenissima, che garantirono quel Buon Governo e quella Giustizia, che descritte oggi, più che un ricordo, apparirebbero un’utopia.
E' falso, dunque, che sotto San Marco si stesse male: la gente era ben nutrita (nelle carestie lo Stato importava masse di derrate dall’estero), viveva in buone condizioni, ma conosceva meno lussi e comodità, inoltre aveva tutto il necessario. Si identificava con il proprio Stato e partecipava alla vita pubblica in ambiti precisi: il popolo, inquadrato nelle Arti e nelle Schole, accompagnava il lavoro ad un ideale, che lo rendeva unitissimo; si sentiva protagonista del suo mondo, la convivialità era intensa, con continue feste popolari e sacre con musica e balli, banchetti, vita sociale ai massimi livelli, una solidarietà tra classi con rari riscontri all'estero quanto a ricchezza di forme.  Per non parlare dell'esplosione di espressioni artistiche di cui abbiamo tuttora abbondanti testimonianze.
La tassazione era a livelli irrisori (ca. il 10%), le guerre ridotte al minimo e fatte solo per difesa (anche se fummo costretti a combattere con tanto sacrificio).  La politica era un onere e non un privilegio, le regole di conduzione della cosa pubblica erano severissime, quanto più aumentava il potere decisionale, tanto più gravi erano le conseguenze di errori, abusi, imperizie, esattamente al contrario di oggi.  La base dello Stato erano le organizzazioni dei lavoratori e la famiglia (demolita oggi dal Nuovo Ordine rivoluzionario). Le famiglie patrizie con responsabilità politiche erano centinaia, questa storia dell'oligarchia è una bubbola per i creduloni.  Soprattutto i governanti veneti erano responsabili davanti al popolo e davanti a Dio, anche senza gli odierni “ludi cartacei” elettorali: oggi la politica non esiste più, è una messa in scena in mano a burattini manovrati ed irresponsabili. I luoghi comuni che offuscano il passato sono stati creati ad arte: è il prezzo da pagare perché stiamo sotto uno Stato che i Veneti non hanno né voluto, né creato.  Prendiamo atto che esso versa in condizioni sempre più precarie.
Il Consiglio Direttivo/Banca
(Mariarosaria Stellin, Fabio Bortoli, Alberto Dürer Bacchetti, Giulio Pozzana, Edoardo Rubini, Giorgio Scarpa, Marco Scarso)
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Lingua e cultura veneta. Dopo la legge, i fatti
di Sabino Acquaviva

Il 25 aprile? Il 1° maggio? Due feste di questa repubblica. Ma qualcuno ricorda la festa dell’altra repubblica, la festa di San Marco, appunto lo stesso 25 aprile? Pochi, in verità, perché l’unità d’Italia, gestita, nei primi decenni, con il pugno (allora) di ferro dei prefetti, provocò il collasso delle culture e delle identità regionali, che furono quasi dimenticate. Ma ora guardiamo al futuro, agli Stati Uniti d’Europa. Tuttavia, il futuro deve passare per il passato? Certamente, in quanto il riemergere delle identità regionali rafforza l’identità europea. Questo perché indebolisce le identità nazionali che tanto sangue e tante guerre sono costate al continente. Dunque, per costruire il futuro parliamo di culture e identità regionali. Ma nel Veneto che accade? L’identità si è offuscata. È diminuito il numero di quanti parlano la lingua veneta, la difendono, ne promuovono i principi ideali. Si sono perdute antiche tradizioni come appunto quella del 25 aprile, ormai celebrato come festa della repubblica (italiana).
      Tutto vero, ma forse il 2008 è l’anno di una svolta che potrebbe diventare storica. La legge approvata dal consiglio regionale dichiara “Il veneto è storicamente la lingua del popolo veneto”. È dunque ufficiale, il veneto è lingua e può essere insegnato “facoltativamente” a scuola. E qui, purtroppo, un primo cedimento: perché facoltativamente? Avete mai visto la lingua di un popolo che, nel proprio paese, venga insegnata facoltativamente?
      Certamente, la legge è ambivalente per ragioni politiche e giuridiche obiettive. Ma, a questo punto, chiarito che si tratta della lingua di un popolo, questo popolo deve lottare per la propria lingua. Ma la legge offre altre prospettive positive: “la regione si impegna a favorirne e promuoverne” (del veneto) "l’insegnamento e l’apprendimento, l’informazione giornalistica e televisiva, la creazione artistica, l’edizione e la diffusione di libri e pubblicazioni, eccetera eccetera”.
      Ma di tutto questo che cosa accade o è accaduto? Televisione? Radio? Giornali? Dove è l’uso del veneto?
      Molto poco, in verità, è seguito alla promulgazione della legge. La lingua è parlata da tre milioni di persone nel Veneto, forse cinque nel Triveneto, in Istria e in Dalmazia. Non penso sarebbe difficile una politica triregionale di rilancio. Basterebbe andare in Catalogna e imparare.
      Ma chi fa politica ha molti strumenti in mano che io, ad esempio, non possiedo: può introdurre fin d’ora negli asili, e nei primissimi anni di scuola, dei testi in veneto per i piccolissimi, curandone la diffusione gratuita, agire sulle radio e le televisioni locali offrendo dei contributi per le trasmissioni in lingua veneta. Operare in maniera analoga sui giornali, non dimenticando di influire sulle pubblicazioni, anche periodiche, ma più o meno pubblicitarie di interesse locale, diffondere dei piccoli manuali di storia della regione, promuovere la modifica dei testi scolastici adeguandoli alla storia reale d’Italia e del Veneto e non difendendo la diffusione di testi che raccontano il mai accaduto.
      Si contribuirebbe in questo mondo alla riscoperta da parte di coloro che sono nati nel Veneto o che vi abitano, della propria identità linguistica e culturale. Qualche cosa di simile, insomma, a quello che accade agli immigrati in America.
      In conclusione, abbiamo una legge che potrebbe permettere di salvare una lingua, una cultura, le tradizioni della repubblica forse più antica del mondo. Una svolta storica, insomma. Cerchiamo, noi abitanti del Veneto, o del Triveneto, di non perdere questo appuntamento con la storia, proposto da una semplice legge regionale: sarebbe una vera tragedia per un popolo e la sua lingua.
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L’improbabile unitarietà dei Veneti
Di Ugo Suman

Domenica 3 Maggio il prof. Sabino Acquaviva ha magnificato le tradizioni del nostro Veneto, mettendone in evidenza la decadenza del ricordo e del nostro dialetto: sacrosanta verità. Ma a proposito della lingua veneta dichiarata, questa non esiste; non è mai stata riconosciuta come una lingua unica, e non è mai stata realizzata ufficialmente con le regole di scrittura e tutto il resto.
      Che il dialetto ancora in vita venga riconosciuto come una lingua per i veneti, mi sta bene: è stato scritto e dichiarato che i dialetti sono o possono essere considerati lingue tribali. Ma quando si parla di lingua veneta, di quale dialetto si vuol parlare?
      Quello di Padova è diverso da quello di Venezia, Chioggia, Treviso, Verona, Vicenza, Rovigo. Belluno poi, fa per conto suo più di ogni altra provincia. La scuola, eventualmente, potrebbe usare un dialetto per ogni Provincia, ma non la lingua veneta, per le differenze che, sicuramente anche il prof. Acquaviva conosce bene.
      E ci sarebbe molto da dire anche sul fantomatico popolo veneto che, anche questo, inteso come unità, struttura sociale e rappresentaza attiva partecipe alla vita pubblica del grande Veneto, che si riferisce in gran parte alla potenza della Serenissima, non c’è mai stato. Il potere, l’opulenza della Serenissima, i commerci mondiali eccetera erano in mano e a conoscenza di una minoranza irrisoria, numericamente, rispetto agli abitanti del territorio. Il popolo veneto, quello della pianura e delle campagne, dove i ricchi e nobili veneziani (che parlavano il loro dialetto) son venuti a fabbricarsi le loro sontuose ville, a custodia delle loro proprietà e per le vacanze.
      Il popolo vero, semianalfabeta, o analfabeta del tutto nel Sette-Ottocento e più, giaceva semisepolto nella miseria della campagna, pieno di fame, malaria e tubercolosi. I più, non sapevano nemmeno di essere veneti. Molti della Bassa, non hanno mai visto Venezia, ovviamente prima del ponte di Mestre e delle strade agibili. La Storia può essere raccontata in tante maniere, ognuno ne coglie la parte che ritiene più adeguata alla sua mentalità o alla sua supposta verità: questo vale anche per me.
      Scrivo in dialetto da una vita; da oltre trent’anni anche sul Gazzettino di Padova: “L’orto de casa”; ho alle mie spalle, e purtroppo, una trentina di pubblicazioni, in dialetto e in italiano che raccontano la storia della mia, della nostra gente, dei veneti in genere, che sono stati, come i miei avi, quelli che ho nominato prima.
      Non si sono mai sentiti un popolo, non ne avevano la possibilità pratica né la cultura. Lo rappresentavano, senza delega, i ricchi armatori, i nobili, ed anche il clero; ma il popolo viveva nella miseria, molte volte sfruttato e quasi sempre dimenticato.
      Cordialità.
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Mail di Alberto Baffa

".. avevo letto con piacere l'articolo di Acquaviva. Mi ha fatto ben sperare circa il fatto che anche i giornali inizino a dare spazio alla questione veneta.
 
Purtroppo oggi lo stesso Gazzettino ha dato ampio spazio ad una lettera di un tale che contesta l'articolo di Acquaviva, smantellando le ragioni che farebbero dei veneti un popolo. I suoi ragionamenti sono tuttavia assurdi, illogici e non relazionati ai tempi.
 
Uno dei punti che l'autore pone come ragione dell'assenza di un popolo veneto è quello relativo al fatto che chi comandava erano poche famiglie nobili, e che il resto del popolo viveva in miseria. Nulla di più falso se fosse appunto messo in relazione ai tempi. Infatti in tutti i paesi pre-industriali il popolo viveva in miseria o in estrema umiltà, ed era governato da pochissime persone. Tuttavia la Repubblica Veneta era lo stato in cui il popolo stava di gran lunga meglio, era lo stato in cui il potere decisionale era diviso tra il maggior numero di persone, era lo stato in cui vi era la miglior forma di governo e di buona amministrazione. Era quindi lo stato al quale il popolo era più fedele e devoto (per quanto chi pensava soprattutto a procacciarsi da vivere potesse essere devoto ad uno stato). E questo è testimoniato non da romantiche parole, ma dalla Storia, che ci insegna come i veneti, non solo i veneziani, siano insorti in più luoghi e tempi contro l'occupante. La Storia ci insegna anche come in nessun altro paese il simbolo del potere sia stato non solo accettato, ma a tratti amato e invocato, come lo è stato quello Veneto, il Leone marciano.
 
Sul fatto che quindi non fosse un popolo quello veneto, ma magari lo fossero i francesi, gli inglesi, o chissà che altri, non so da cosa lo si possa addurre. Basandosi sugli stessi ragionamenti che in quella lettera tendevano a demolire il concetto di popolo veneto, infatti, quello veneto diverrebbe il popolo più degno di questo nome, e degno soprattutto di uno stato che ne dia legittimità e tutela.
 
VSM
Alberto Baffa

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Mail di Edoardo Rubini

Ciao Alberto e ciao carissimi,
voglio dirvi che condivido ciò che scrivi e rincaro la dose.
Ricordo un mediocre documentario di Quark su Venezia, nel corso del quale si riportava tutavia il giudizio prevalente
negli ambienti intellettuali anglosassoni, che definivano la Veneta Serenissima Repubblica "una democrazia".
Spiego perché si tratta di un giudizio esatto.
Per sommi capi possiamo dire che si trattava di una Aristocrazia nella forma e di una Democrazia nella sostanza. Oggi invece abbiamo una democrazia nella forma e un'oligarchia nella sostanza, perché il potere vero è detenuto ed esercitato da potenti lobbies a livello occulto.
La differenza dei termini (Aristocrazia, oligarchia) deriva dal greco ariston (il potere dei migliori) e oligos (il potere dei pochi).
Quanto a democrazia, il termine fu approfondito da Platone ed Aristotele nei termini di detenzione formale del potere decisionale: è uno schema formale che oggi risulta insufficiente.
Questo formalismo è stato, infatti, esasperato dall'ideologia liberale, che crea giustificazioni formali prive di vera sostanza
all'esercizio del potere (come le consultazioni elettorali, in cui vengono interpellate masse nella stragrande maggioranza dei casi non messe in grado di esprimere giudizi e indottrinate da mass media non liberi): chi ha il potere oggi fa ciò che vuole, mentre negli Stati Cristiani vi era limiti invalicabili, quali l'ordine sociale derivante da un assetto morale di origine trascendente (diritto naturale).
Platone ed Aristotele spiegavano che il miglior sistema politico è l'Aristocrazia : solo una classe dirigente selezionata e protesa a ricercare la Virtù garantisce il bene dell'intera comunità. Platone ed Aristotele vedevano la democrazia come espressione della demagogia. Un concetto moderno di democrazia dovrebbe, invece, prescindere dalla detenzione formale del potere ed identificarsi con quel sistema che in sostanza fa davvero la volontà del popolo: ebbene la fa una classe dirigente selezionata e tesa a ricercare la Virtù, quindi l'Aristocrazia. E' falso che il popolo sotto San Marco vivesse male: la gente viveva in buone condizioni, conosceva meno lussi e vizi, ma aveva tutto il necessario, era felice perché si identificava con il proprio Stato, che esprimeva i Valori Cristiani prima e sopra che ogni altra cosa, era libera perché indirizzata verso il bene, perché accompagnava il lavoro ad un ideale, il popolo era unitissimo, pieno di gioia di vivere, inquadrato nelle Arti e nelle Schole, la convivialità era intensa, con continue feste popolari con musica e balli, banchetti, vita sociale ai massimi livelli, una solidarietà tra classi con rari riscontri all'estero quanto a ricchezza di forme.  Per non parlare dell'esplosione di espressione artistiche di cui abbiamo ancora abbondanti testimonianze.
La tassazione era a livelli infimi (il 10%), le guerre ridotte al minimo e solo per difesa (anche se fummo costretti a combattere con tanti sacrifici).
La politica era un onere e non un privilegio, le regole di conduzione della cosa pubblica erano severissime, quanto più aumentava il potere decisionale, tanto più gravi erano le conseguenze di errori, abusi, imperizie, esattamente al contrario di oggi.  La base dello Stato erano le "formazioni naturali", cioè le organizzazioni dei lavoratori e com'è naturale, la famiglia (oggi distrutta dal NUOVO ORDINE rivoluzionario).
Come dicevi, le famiglie patrizie con responsabilità politiche erano centinaia, quindi sta storia dell'oligarchia è una bubbola. Soprattutto erano responsabili davanti al popolo, oggi la politica non esiste più perchè è una messa in scena in mano a burattini manovrati ed irresponsabili.
Finisco dicendo che l'illuminismo ha inventato nazioni fasulle, costruite su farneticazioni idealistiche,
come quelle rappresentate dagli attuali stati.
La Veneta Nazione è sempre esistita e sempre esisterà.
WSM!   Edoardo
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Le antiche  origini del popolo veneto

      Volevo rispondere alla lettera di Ugo Suman del 6 maggio che parla dell’inesistenza del popolo Veneto. Bene, a primo acchito, potrei subito rispondergli che se il popolo veneto non esiste, della storia di Roma si potrebbe saperne ben poco, visto che Tito Livio, veneto come con orgoglio si definiva, ne scrisse la storia. Fu proprio lo stesso Livio a descrivere i primi confini del “fantomatico” popolo veneto. Andando più indietro col tempo, semplicemente leggendo l’Iliade scopriamo che i Veneti partecipano alla guerra di Troia alleati di Ettore.
      Sputiamo addosso alla Serenissima, però per l’italiano fascista e savoiardo gli ex-territori dell’Istria e Dalmazia, Albania e Grecia erano un comodo appiglio alla pretesa territoriale. Ancora adesso si sente in giro qualche sinistro personaggio ora di destra, ora di sinistra, rivendicarne una presunta italianità. La Repubblica Veneta seppe gestire questi territori per quasi ottocento anni, con un esempio di integrazione fra popoli senza paragoni. Sono bastati venti anni di stato fascista italiano per distruggere questa coesistenza civile, anzi generando un eccidio per ritorsione dell’innocente popolo veneto per otto secoli amato, in poco tempo odiato e infoibato con addosso cucito per forza il marchio italiano.
      Mi vien da ridere quando leggo il veleno che getta addosso alla Serenissima: l’unico stato dell'epoca in Europa ad aver tutelato il lavoro minorile, tanto per parlare di popolo oppresso. Sono ormai trascorsi cinquecento anni dalla guerra contro la Lega di Cambrai, la Serenissima dovette combattere contro tutto il mondo: Stato Pontificio, Imperiali, Francesi, Inghilterra, Spagna, Savoia, Svizzeri. E di episodi eroici che coinvolsero il popolo “oppresso” ne successero in gran numero: l'autoaffondamento delle zattere dei bellunesi che preferirono morire piuttosto che aiutare gli Imperiali a portare il materiale bellico giù per la Piave; i Pellizer, padre e figlio, che a Treviso guidarono la resistenza della città; quei cittadini veneti che a Vicenza occupata da Massimiliano I° aprirono le porte ai soldati di San Marco; tutta la gente che a Cividale del Friuli si riunì per combattere sotto lo stemma marchesco, con armi di fortuna. Perfino il Machiavelli ci descrive un fatto che ci lascia sbigottiti: un contadino piuttosto che vendersi la vita si lascia impiccare, pronunciando la frase “marchesco son e marchesco vogio morir”.
      Di sicuro se la popolazione fosse stata maltrattata come dice l'autore della missiva in questione non si sarebbe così donata allo Stato veneto.
      Pierluigi Ceccon
      Brugnera (Pn)

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I veneti: un popolo da 3000 anni

"      I veneti sono popolo e nazione da circa 3000 anni, cioè dall’epoca protostorica ad oggi, con buona pace di chi non si considera tale, pur essendo nato in questa terra. Uno dei più grandi studiosi dei popoli preromani, Massimo Pallottino scrive infatti: «Una caratterizzazione etnico-culturale ben definita – tra le meglio definite di tutte le compagini regionali dell’Italia preromana – s’incontra nel Veneto dove, dalla già specializzata “facies” locale “protovillanoviana”, nasce al’inizio dell’età del Ferro (IX-VIII secolo) la civiltà che chiamiamo “paleoveneta” o “atestina… la sorprendente continuità di questo fenomeno ci assicura che esso rappresenta l’ethnos dei Veneti nei loro confini tra il fiume Adige, le Alpi e l’Istria».
      Il termine “venetkens” fu scoperto in una scritta trovata a Vicenza, e la datazione ci porta a 500 a.C., oltre ai reperti venetici che spaziano dalla Carinzia, all’Emilia, all’attuale Slovenia. I veneti mantennero la loro peculiarità, come alleati dei romani e quando cadde l’impero, essi continuarono ed essere considerati tali al di là dei confini, che si erano apparentemente ristretti ai bordi della laguna. Un illustre personaggio, storico e cronista dell’Evo antico, Paolo Diacono, precisa infatti, nella sua “Historia Longobardorum”, che deve ritenersi territorio veneto tutta quella regione che va dall’Adda all’Istria, e non la sola laguna veneta, quindi anche le città e il territorio dell’entroterra, che alla sua epoca, erano parte del regno longobardo.
      La Repubblica di Venezia, rivendicava tale legittima eredità storica, rifacendosi ai confini della X regio, i quali ospitavano un unico popolo chiamato Veneto.
      Se il venetico fu abbandonato tra il II e III secolo dopo Cristo, certo qualche cosa di quella antica lingua rimase nella parlata veneta neolatina che si formò, come probabilmente dimostra il nostro accento inconfondibile. Come il sardo, il friulano e tante altre lingue, prive di una regola grammaticale fissa, qui da noi si parlano varianti locali, ma indubbiamente un triestino può farsi capire benissimo da un padovano e viceversa. Quanto alla Repubblica veneta, la campagna prosperava, dava di che vivere dignitosamente al contadino, le città erano piene di operai addetti al tessile e a persone impiegate nei vari commerci. Inoltre ogni categoria del mondo del lavoro veneto aveva i propri rappresentanti eletti democraticamente, che interloquivano con le massime autorità sapendo di essere ascoltati. Tanto che alla caduta della Repubblica, migliaia furono i popolani che imbracciarono le armi per restaurare l’ordine antico. Sapevano di perdere delle libertà sostanziali, in cambio di libertà formali che in realtà li rendevano schiavi.
      Tale lotta si protrasse per due decenni,ed è praticamente ignorata dalla storiografia ufficiale: nel 1812, ad esempio, un prete capo partigiano, fu fucilato dai francesi alle porte di Vicenza. Sotto la tonaca aveva la bandiera di San Marco. Altro esempio di amore popolare per la Repubblica, tramontata ma non dimenticata: nel bellunese, per tutta la prima metà dell’800, si celebrarono messe in memoria della Repubblica di San Marco, come riporta il Doglioni, storico locale.
      Millo Bozzolan
      Seren del Grappa
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Le ragioni dell’unità del popolo veneto
di Sabino Acquaviva

Ho letto con ritardo l’intervento del 6 maggio di Ugo Suman, il quale sostiene che la lingua veneta non esiste perché vi sono delle differenze fra una città e l’altra, e alla fine sembra pensare che non possiamo parlare neppure di una cultura e di un‘identità del popolo veneto. È come affermare che non esisteva un’identità greca perché i dialetti della Grecia antica erano simili ma non identici. Per fortuna quella che viene ricordata come la coinè, cioè l’unificazione dei vari dialetti, ha dato vita al greco antico e a una civiltà millenaria.
      I vocabolari di greco antico che si usano a scuola sono la fotografia di questa convergenza di più dialetti in una lingua unitaria, e confesso che questa situazione era la mia disperazione quando studiavo e traducevo dal greco, perché molto spesso le parole avevano due o tre significati (e viceversa), diversi appunto perché provenienti, all’origine, da dialetti differenti. Per questa ragione uno stesso testo finiva per essere tradotto in maniera completamente diversa da studenti differenti.
      Con il dominio romano l’identità culturale e linguistica si trasformò in un’unificazione politica che permise ad uno stato greco unitario di essere capace di durare altri mille anni, cioè fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi.
      Ma per sostenere la tesi che non esiste un popolo veneto, Suman porta degli argomenti che se fossero validi condurrebbero alla conclusione che non esistono popoli con una loro identità. Ma per fortuna lui stesso osserva che “la storia può essere raccontata in tante maniere, ognuno ne coglie la parte che ritiene più adeguata alla sua verità o alla sua ‘supposta’ verità”. Ho sempre apprezzato e spesso ammirato la difesa di Suman del dialetto padovano, ma anche per questo non capisco il suo desiderio di rifiutare al popolo del Triveneto un’identità culturale, una parziale identità linguistica, una forte presenza nella società europea e mediterranea.
      Non so se i veneti si sono mai sentiti un popolo, ma credo che comunque lo fossero. Mi ricordano un po’ la vicenda dei rumeni che, quando nacque la Romania, dovettero scoprire la propria identità latina dopo aver trascorso secoli interi senza rendersi conto della propria origine e del significato dei secoli più lontani della loro storia. Inoltre, non so se gli abitanti delle campagne del Veneto erano più in miseria, come sembra ritenere Suman, di quelli della Catalogna, della Provenza, della Baviera, ecc., non so se avevano più o meno coscienza di essere un popolo, ma penso che oggi questa coscienza si faccia strada da molti punti dei vista. La costruzione dell’Europa unita, come tutti sanno, passa attraverso la riscoperta dell’identità delle culture regionali preesistenti all’emergere devastante dei nazionalismi dell’800 e del ‘900. In quei due secoli le culture di singole regioni divennero culture nazionali, e quindi andarono parzialmente distrutte o soffocate molte culture e lingue regionali come quelle basca, catalana, provenzale, veneta e via dicendo.
      Ha ragione Suman, il popolo spesso viveva nella miseria, molte volte sfruttato, dimenticato, ma mi auguro che parli del popolo europeo, anzi dei popoli d’Europa, non soltanto di quello veneto. Oggi il popolo veneto, che prende coscienza della sua identità, come altri popoli europei lavora per costruire al proprio interno una coinè linguistica, e così partecipare alla costruzione dell’Europa dei popoli contro ogni nazionalismo, e ha diritto anche ad una sua lingua unitaria. Ricordo quel che mi diceva mio padre a proposito dei soldati italiani che occuparono la Dalmazia nel 1941: un suo amico veneto andò al ristorante chiedendo una forchetta, nessuno capiva l’italiano, nè sapeva cosa portare, ma quando chiese un piron il cameriere, che era un veneto-dalmata, comprese immediatamente. Tutti i presenti percepirono l’esistenza dell’unità linguistica dei veneti con i dalmati di allora. Certamente, il vicentino è diverso dal triestino, il veronese dallo zaratino che (con la guerra ridotto a poca cosa) ancora sopravvive, ma nell’essenziale sono eguali e sono espressione di una cultura e di un’identità che li unisce, e per questa ragione torno a chiedere che la lingua veneta venga insegnata a scuola. Non so se i vocabolari potranno tener conto delle differenze locali, se una coinè potrà riferirsi soprattutto al veneziano, sono però certo che anche questo lavoro di unificazione linguistica servirà a rafforzare l’identità di un popolo, di chi fece parte di una repubblica che è stata per secoli una grande potenza, di una letteratura che ha avuto in Ruzante e Goldoni due figure particolarmente significative, di una società che possiede caratteri che sono espressione della sua capacità industriale e commerciale, di un livello tecnologico ed economico che ha antiche radici nella storia ed è, anch’esso, parte dell’identità di quel popolo. Adoperiamoci per la nascita degli Stati Uniti d’Europa, ma ricordando che l’unificazione dei popoli del continente richiede anche l’indebolirsi delle identità nazionali e dei nazionalismi, che tanto sangue ci hanno obbligato a versare, e sono ancora un pesante ostacolo alla realizzazione del sogno di un’Europa unita nel nome dei popoli che la compongono.
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L’identità e la cultura del popolo veneto

Egregio direttore,
      mi permetta di comunicare l’amarezza provata dalle parole che uno studioso padovano ha scritto in questi giorni al “Gazzettino”, a riguardo de “L’improbabile unitarietà dei veneti”. Mi permetta però, da laureato in storia veneta, di sottolineare il fatto che ciò che scrive è sì in buona parte vero (anche il sottoscritto, pur non avendo un’età anagrafica avanzata, ha avuto modo di fare una serie di ricerche sull’isolamento e la vita dura dei contadini veneti), ma tutto ciò è appunto una “parte” della storia veneta che si è voluta sottolineare, tralasciando altri e fondamentali elementi, talvolta opposti a questi. Ricordo a chi non ha letto l’intervento in questione che vi sono affermazioni del tipo di: “lingua veneta dichiarata, questa non esiste”, “fantomatico popolo veneto… semianalfabeta o analfabeta del tutto… i più non sapevano nemmeno di essere veneti…. l’unità (del popolo) che si riferisce in gran parte alla potenza della Serenissima, non c’è mai stata”. Si potrebbero sul piano storico ribattere facendo tutta una serie di rilievi e ricordando una serie di manifestazioni popolari (e non d’èlite come dice il nostro autore) a sostegno dello stato di San Marco minacciato dagli eserciti stranieri, come dopo la sconfitta della Serenissima nel 1509 ad Agnadello o come nel 1809 tutte le insorgenze che avvennero nei nostri paesi contro i napoleonici invasori; quest’anno ricorre il cinquecentenario ed il bicentenario di entrambe, e non sarebbe male ricordare anche queste cose ai veneti di oggi.
      Sul piano linguistico basta leggere tutti gli studi del compianto prof. Cortellazzo, recentemente scomparso, il quale se certo sottolineava le differenze presenti nelle varianti locali venete ripeteva spesso che oltre il 90% delle parole venete sono uguali o quasi uguali in tutta la regione, e allora come si può dire che questa non è una lingua? Gli esempi sul piano storico e culturale potrebbero essere molteplici, per non tediare i nostri lettori vorrei invece spostare la questione sul piano del cuore, pieno di tristezza nel vedere come molti cittadini veneti, anche tra i più colti, non sentono o non vogliono riconoscere la loro identità, la loro storia e la loro lingua; presentando la nostra storia unicamente come quella di chi “viveva nella miseria” si fa di certo il gioco di chi, magari avendo una conoscenza sommaria dell’identità del proprio “popolo” (mi permetta direttore una battuta: se non è mai esistito un “popolo veneto”, può mai esistere “un popolo italiano”?) la sfruttano per fini d’interesse di bottega; se era questa la preoccupazione che sta a monte dello scritto del nostro autore, allora essa è sicuramente condivisibile.
      prof. Daniele Marcuglia
      Zero Branco (Treviso)
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Il dialetto è l'espressione della Nazione Veneta

Egregio Direttore,
leggo nel Gazzettino di sabato 31 maggio l’intervento del senatore Maurizio Castro relativo al dibattito sulla lingua veneta e sull’insegnamento della stessa.
Devo dire che, mentre nel passato ho apprezzato alcune lucide analisi economiche del senatore, questa volta le sue tesi mi lasciano alquanto…perplesso.
Vediamo schematicamente alcuni passaggi:
a)   1) il senatore sottolinea la “falsificazione mitografica di un passato mai esistito (quale la Padania o la celticità del Nord-Italia)” da parte della Lega: condivido.  Ma qui stiamo parlando di Veneto, di storia, di lingua e di identità veneta, di un popolo che dal 1.200 a.C. ha plasmato questa  terra dandogli il proprio nome.
Il Veneto è, a tutti gli effetti, una nazione storica d’Europa, come la Bretagna, la Baviera, la Catalunya ecc. e come tale va considerata;
b)   2) passa poi a definire la lingua italiana “patrimonio identitario della Nazione, come tale romana e cattolica”. L’Italia è uno stato, non una nazione, e all’interno di questo stato convivono vari popoli, dal veneto al sardo, dal tirolese al ligure. Il tentativo di ridurre tutto questo straordinario patrimonio di culture e di identità  a “un popolo, una storia, una lingua” che ha avuto  la sua massima espressione nel ventennio fascista ha provocato guasti inenarrabili. In particolare come Veneti, abbiamo avuto la nostra storia, una repubblica indipendente per 1.100 anni che, come scrisse Montanelli fu  "una civiltà non italiana (quale la Serenissima mai fu né mai si sentì), ma europea e cristiana".
c)     3) Il senatore chiude l’intervento auspicando la “riscrittura ufficiale della Nazione nel 2011 in occasione del 150 anniversario dell’Unità d’Italia”. Benissimo, ma si  tenga presente che il Veneto entrò a far parte del Regno d’Italia nell’ottobre del 1866, dopo un plebiscito-truffa. Cosa abbiamo da festeggiare noi Veneti nel 2011?
d)    4) E’ sbagliato e ingiusto ricondurre alla sola  Lega Nord l’impegno di tante venete e veneti per la difesa e la valorizzazione della lingua veneta; un impegno che parte dalla fine degli anni settanta con la nascita della “Società Filologica Veneta” e che continua fino ai nostri giorni attraverso un arcipelago di movimenti e associazioni solo in  minima parte riconducibili alla Lega; anzi per diverso tempo il gruppo dirigente leghista, Umberto Bossi in testa, ha contrastato l’uso della lingua veneta, così come della bandiera veneta in quanto ostacoli all’affermazione di una identità “padana”.
e)    5) Chiudo citando quanto scriveva, oltre trent’anni fa, il Consiglio d’Europa nel preambolo della “Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie”, ove si afferma il  “il diritto delle popolazioni ad esprimersi nelle loro lingue regionali o minoritarie nell’ambito della loro vita privata e sociale costituisce un diritto imprescrittibile” e più avanti “la difesa e il rafforzamento delle lingue regionali o minoritarie nei vari paesi e nelle varie regioni d’Europa, lungi dal costituire un ostacolo alle lingue nazionali, rappresentano un contributo importante all’edificazione di un’Europa basata sui principi di democrazia e di diversità culturale”.

ETTORE BEGGIATO  - Responsabile cultura Progetto Nordest
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