Precedente Prossima
home page


Giacomo Matteotti 


Giacomo Matteotti
deputato socialista e
     massimo oppositore al Regime fascista

EROE  VENETO

Busto di Matteotti

Giacomo Matteotti nacque a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, il 22 maggio 1885.  La famiglia era originaria di Comasine, nella valle di Pejo, nel Trentino.  Il nonno Matteo, di mestiere calderaio, commerciava di frequente in pianura e finì per stabilirvisi con la moglie Caterina.  Nel 1839 nasceva Gerolamo, il padre di Giacomo.  La madre, invece, si chiamava Elisabetta Garzolo (detta Isabella).  La coppia aveva aperto nel rovigotto un piccolo emporio (di tessuti, attrezzi agricoli, ferramenta, articoli casalinghi), che grazie ad una gestione avveduta permette alla famiglia di investire in terreni e fabbricati.
I fondi agricoli acquistati si rivelano redditizi, sicché la famiglia ha i mezzi per far studiare Giacomo e i suoi fratelli; nel 1907 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Bologna con una tesi sulla recidiva nel diritto penale, che pubblica nel 1910.

UN UOMO CHE RACCHIUDEVA IN SÉ LE PIU'ALTE VIRTÚ
DI SINISTRA, MA NON ANTICLERICALE. Giacomo ed il fratello Matteo, in tempi di forti tensioni tra socialisti e cattolici, erano impegnati nel dialogo tra le forze popolari, nella convinzione che il riscatto delle classi lavoratrici dovesse avvenire nel rispetto dei riferimenti culturali della gente semplice.

DAVANTI AD UNO STATO AMORALE E AD UNA SOCIETÁ OPPRESSA. Nei primi del Novecento la situazione delle comunità rurali è segnata da una miseria catastrofica. Il Regno d’Italia tassa in modo selvaggio i beni di prima necessità, mentre i socialisti si battono per l’abolizione della tassa sul grano e per l’introduzione di quella patrimoniale. Lo Stato dilapida il pubblico erario: del miliardo e 671 milioni di lire del bilancio annuale, un terzo se ne va in spese per armamenti e circa 700 milioni sono persi per pagare il debito pubblico; ai servizi per i cittadini sono riservati appena 400 milioni (circa il 20%). L’impegno politico di Giacomo inizia a sedici anni; nel 1904 è responsabile per il Comitato centrale del collegio di Lendinara, nel 1910 è eletto a furor di popolo al Consiglio Provinciale di Rovigo.

CONTRO L'IMPERIALISMO DELIRANTE. “Né un uomo né un soldo per l’Africa”, così egli conduce l’opposizione alla guerra di Libia (1911-12), appoggiando anche l’espulsione dei “socialpatriotti”, gli interventisti interni al partito.  Instancabile è la sua presenza nei comizi e sulle pagine dei giornali per contrastare la retorica di Stato e denunciare la realtà della guerra coloniale. All’alba della guerra mondiale 1915-18, Matteotti presagisce l’incapacità dell’Italia a mantenere una politica neutrale, lottando con tutte le sue forze per far schierare il partito socialista contro il futuro inutile massacro (che costerà al Paese 600.000 morti, oltre a centinaia di migliaia tra mutilati ed impazziti) in larga prevalenza semplici contadini, impreparati culturalmente ad affrontare tale violenza. Per impedire la guerra i socialisti non avevano scartato neppure l'ipotesi dell’insurrezione generale.  Nel maggio 1915 scrisse: «L'Italia ha voluto la guerra, si è poi detto; e ognuno ha visto l'Italia nelle dimostrazioni di studenti che non si arruolano, di impiegati che si sono assicurati l'esonero dal servizio militare e la paga intera per tutto il tempo di guerra. Ognuno di noi ha visto l'Italia in quella masnada di gente che dopo aver per anni piegata la schiena a Giolitti, attendendone favori, ieri è uscita per comando sulle porte dei Ministeri e ha ottenuto mezza giornata di vacanza perché andasse a dimostrare. Ognuno di noi ha visto il degno poeta d'Italia in quel piccolo mantenuto di donne, fuggito in Francia per debiti e  restituitoci per porto affrancato dalla massoneria repubblicana [D'Annunzio]...».

LUNGIMIRANTE E FEDERALISTA.  Bisogna sapere che larga parte della sinistra, prima dell’ultima guerra, aveva idee diverse e assai più critiche sull’Italia unita.  Così, anche Matteotti considerava più avanzate quelle soluzioni (già allora applicate in varie parti d’Europa) che garantissero autonomia e libertà a popoli diversi, a prescindere dalle questioni sui confini (in analogia con le odierne tesi federaliste, in contrasto con il dogma dell’"indivisibilità" dello Stato, postulato nell’odierna carta costituzionale). Potenziare gli enti locali è un tratto peculiare del suo pensiero.

POLITICO RIGOROSO ED INCORRUTTIBILE. Eletto in Consiglio Provinciale di Rovigo esprimeva sempre la sua posizione con chiarezza e competenza, preciso fino alla pedanteria, anche a costo di dispiacere ai suoi compagni di militanza. Si opponeva spesso al ricorso sistematico alle deliberazioni d'urgenza.  Costante attenzione dedicò ai contratti che l'amministrazione stipulava con le imprese private appaltatrici di grandi opere (p.e. le concessioni accordate alla Società Vicentina per la rete tranviaria). Le sue denuncie provocheranno le dimissioni di Casalicchio, presidente del Consorzio granario.  Organizzatore di leghe e di cooperative, consulente di amministrazioni comunali e amministratore egli stesso, revisore severo di bilanci, fu definito "propagandista di piccole cose, mediante le quali tocca la sfera dei principî con schematica sobrietà".  Si occupa di patti agrari, di scuole, di strade, di telefoni: organizza e guida visite ai musei.  Fu artefice e protagonista di un vitale riformismo che fece scoprire al mondo contadino nelle campagne della Val Padana, promuovendo nuove forme di vita associata, sentimenti di solidarietà e di riscatto. Nella sua operosità quotidiana godeva di enorme popolarità, per converso facendo apparire la sua figura defilata all’interno del partito, che spesso rimaneva avviluppato nelle controversie ideologiche e nelle lotte tra correnti.

MUSSOLINI LO ODIAVA.  Il 24 ottobre 1914 Matteotti sul quotidiano La Lotta plaude alla rimozione di Benito Mussolini (prima rivoluzionario radicale e agitatore della povera gente, divenuto poi di colpo nazional-interventista) dalla direzione del quotidiano L’Avanti.  Il futuro Duce - ai tempi della militanza socialista - predicava l'uso della forza come metodo costante di lotta (il 27 settembre 1911 Benito fu arrestato a Forlì per aver capeggiato scontri violenti contro la guerra in Libia), salvo presentarsi dieci anni dopo come l'unico garante della pace sociale contro le lotte operaie in Italia e scatenare vent’anni dopo un turbine di orrori sanguinari in Libia e nel Corno d’Africa.

A FIANCO DEI BRACCIANTI CONTRO IL TERRORE FASCISTA.  Il suo impegno contro la guerra di stato gli costò l'odio dei possidenti agrari legati alla massoneria. Con strana preveggenza gli dedicarono uno strano titolo sul loro giornale, Il Corriere del Polesine: "Il Dottor Matteotti deve scomparire".
Il 5 giugno 1916 un suo intervento in Consiglio Provinciale provoca una gazzarra dichiarando a gran voce: «Abbasso la guerra, questa è una guerra nefasta da noi socialisti ufficiali non voluta, siete degli assassini, a noi non importa che il nemico sia alle porte, siete dei barbari in confronto degli Austriaci.  Le manifestazioni patriottiche sono delle provocazioni ai sentimenti!». Il Prefetto lo denuncia e il tribunale lo condanna a trenta giorni d'arresto per "espressioni sediziose e disfattismo". Dopo lungo processo la Cassazione lo proscioglie.
Ma è con la fine della Grande Guerra che esplode una lotta di classe quale il Veneto, ed in particolare il Polesine, mai avevano conosciuto.  A partire dal 1921 la casta dei possidenti agrari reagisce contro le conquiste dei poveri braccianti: le leghe popolari erano riuscite a controllare gli uffici di collocamento (ben 450), avendo diritto d'intervento nella gestione e distribuzione del lavoro.  Inoltre, la sinistra amica dei contadini ora può contare su 72 sezioni socialiste, 70 cooperative, amministrazioni a guida socialista, ecc.  I latifondisti fanno un blocco unico con lo Stato italiano, pilotano il Prefetto, controllano esercito, polizia e magistratura.  In tal modo sono in grado di dare copertura ad un'inedita campagna di aggressioni e violenze tramite squadre di picchiatori da essi stessi costituite.  Specie durante la notte, amministratori pubblici (p.e. il Presidente della deputazione provinciale di Rovigo) subiscono assalti nelle proprie dimore, si incendiano casolari, i lavoratori e i loro rappresentanti sono vittime d’imboscate, cadono feriti o uccisi.  Le case del popolo sono date alle fiamme. La reazione dei contadini è di sgomento, c'è chi intende reagire all'aggressione, ma i dirigenti politici riescono a placcarli con raccomandazioni e consigli.  A Roma il 3 agosto 1921 viene siglato il c.d. "patto di pacificazione" che limita le attività politiche in cambio della cessazione delle violenze: i socialisti decidono di accettare loro malgrado, ma i padroni subito sconfessano l'accordo perché il loro potere si regge sul terrore.  Gli squadristi sono infatti l'unico mezzo per neutralizzare le organizzazioni dei lavoratori.
Sul Corriere del Polesine la voce padronale scrive il 9 agosto 1921: «Oggi non invitiamo ma ordiniamo ai fascisti di tenere pronte le armi perché non vogliamo in nessun modo e per nessun motivo sottoscrivere il trattato della nostra morte». Nel giro di pochi mesi si susseguono 20 omicidi.  Viene smantellata tutta l'organizzazione politico-sindacale contadina. La notte del 12 marzo 1921 Matteotti è sequestrato a Castelguglielmo e insultato per ore, abbandonato in aperta campagna, dopo aver ricevuto sputi e colpi di pistola intimidatori.  A Padova, dove si è rifugiato, il 16 agosto 1921 è inseguito da tre fascisti in moto che lo aspettano fuori dalla Camera del Lavoro.  Poco dopo Matteotti a Varazze è ancora minacciato ed insultato per strada.  Ovunque è in pericolo: a Cefalù in Sicilia è aggredito e a Siena è malmenato.  Le camice nere coprono d'insulti anche la madre, che va a trovarlo a Legnago (VR), dove è esiliato.
Nell’ottobre del 1921, al congresso socialista di Roma, la spaccatura fra riformisti e massimalisti diventa insanabile. Nell’anno successivo Matteotti si schiera con i riformisti di Turati ed esce dal partito dando vita ad una nuova formazione politica: il partito socialista unitario. Non è mai stato l’uomo dei compromessi e non è simile a Turati, tuttavia la decisione per questa svolta deriva dal rifiuto verso il modello sovietico verso cui tendono tante correnti del partito socialista, desiderose di ricongiungersi con i comunisti.

ELETTO IN PARLAMENTO: LA STRETTA FINALE.  Matteotti fu eletto in Parlamento per la prima volta nel 1919, in rappresentanza della circoscrizione Ferrara - Rovigo. Fu rieletto nel 1921 e nel 1924.  L'intransigenza e la durezza di Matteotti verso il fascismo continuano sino alla sua soppressione fisica.  Anche all'interno del suo partito contrasta in modo frontale gli ammiccamenti di certi sindacalisti verso Mussolini. Nell'ottobre del 1923 comincia  a mettere assieme la documentazione che darà vita alla sua cospicua opera Un anno di dominazione fascista.  Alla propaganda del regime contrappone numeri, dati, fatti, scritti; dopo la sua morte ne vengono vendute in un mese più di 20.000 copie, con edizioni in francese, inglese e tedesco.
Questo trattato dimostra che Mussolini è stato mandato al potere proprio quando le tensioni sociali si stavano stemperando e che il fascismo non ha pacificato alcunché. Nella prima parte Matteotti analizza la grave crisi finanziaria seguita alla guerra, che pure era stata riassorbita dai governi precedenti: i miglioramenti si devono solo alla conseguente ripresa economica già impostata in precedenza.  In realtà, nel 1923 la bilancia commerciale è peggiorata, è aumentato il costo della vita, il salari sono diminuiti, la disoccupazione è aumentata.  Nella seconda parte fa una rassegna dei principali atti del nuovo governo, rivolti con forza a favorire la grande impresa e soprattutto le banche, a dispetto delle dichiarazioni programmatiche.  Nella terza il deputato sviluppa un'aspra critica contro un autoritarismo tutto all'insegna dello spregio per la legalità.  I discorsi degli esponenti del partito al potere incitano alla becera violenza: bandi, minacce, intimidazioni, arresti, processi arbitrari, olio di ricino, esecuzioni sommarie, distruzioni di circoli operai, di sedi di partito, di abitazioni private, assalti alle aule di tribunale, violazioni della libertà di stampa, divieti di riunione sindacale.  Grande attenzione egli rivolge alle generali condizioni di vita e ai mali del mondo dell'istruzione.


IL DELITTO
    Il 6 aprile 1924 si tennero le elezioni politiche, con una nuova legge elettorale che prevedeva un largo premio per il partito o la coalizione di maggioranza relativa.  Le operazioni di voto erano state ovunque turbate da violenze ed intimidazioni tali da garantire la vittoria del governo.  Il 24 maggio i fascisti riunirono la Camera con l'intento di rivendicare la "vittoria bellica", ricorrendo quel giorno il 9° anniversario della dichiarazione della Grande Guerra. Vittorio Emanuele III dichiarò nel discorso inaugurale che: «oggi la stessa generazione della vittoria regge il governo e costituisce la grande maggioranza dell'Assemblea elettiva».
Il 30 venne proposta dalla giunta delle elezioni la convalida di quasi tutti gli eletti.  Giacomo Matteotti prese la parola. Nel suo memorabile discorso denunciò fuori dai denti fatti e circostanze, i soprusi subiti dai candidati delle opposizioni, a cui era stato persino impedito di circolare nelle circoscrizioni, costretti persino a cambiare residenza, venendo alcuni assassinati. Indicò una serie di illegalità compiute: formalità notarili impedite, incetta di certificati, divieto di assistere al voto, fascisti introdotti nelle cabine.  Concluse chiedendo che la consultazione fosse annullata.  Si immagini l’atmosfera in cui il Nostro dovette parlare: l'intervento che poteva durare una ventina di minuti per essere pronunciato, si protrasse per oltre un'ora per la gazzarra e le interruzioni continue della destra.  Scrisse a caldo Filippo Turati: «Fui entusiasta di Matteotti. Era il mio gran patema che la discussione sulle elezioni ci trovasse impreparati, cogliendoci all'improvviso.  Così fu infatti, ma Matteotti seppe improvvisare e tener duro con tutta la vigoria della sua volontà e della sua invidiabile giovinezza. E le cose essenziali riuscì a dirle malgrado un baccano infernale».
Matteotti in Parlamento
Ai compagni che si congratulavano con lui, il deputato veneto rispose con un sorriso: «Ed ora potete anche prepararmi l'orazione funebre».
In effetti, Mussolini scrisse esasperato sul Popolo d'Italia del 1° giugno che la maggioranza era stata troppo paziente e che la provocazione meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale.  Da tempo il Duce aveva fatto costituire una polizia segreta agli ordini del Partito Nazionale Fascista, denominandola con macabra ironia Ceka, seguendo il modello sovietico. Ai suoi membri aveva assicurato l'impunità per i reati da compiere consapevole che (parole sue): «con il possesso degli organi ufficiali dello Stato abbiamo modo di mettere lo spolverino su tutte le violenze illegali». La banda aveva compiuto numerosi delitti in Italia e all'estero; a finanziarla in gran segreto era l'ufficio stampa del presidente del consiglio.
La sera dell'11 giugno 1924, allarmato dalla famiglia che non lo vedeva tornare, il deputato unitario Modigliani andava alla Questura a denunciare la sparizione dell'amico Giacomo Matteotti. Non si sapeva ancora che la Ceka lo aveva rapito il giorno prima alle 16,30 sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, mentre usciva di casa. Erano in 5 gli squadristi agli ordini di Amerigo Dumini che lo trascinarono a forza in un'auto: con lui erano Augusto Malacria, Albino Volpi, Ettore Viola, Amleto Poveromo (Otto Thierschald basista). La vittima cercò di resistere ed invocare aiuto, ma venne colpito più volte e pugnalato. Mussolini in realtà era stato informato di tutto dal segretario del partito Marinelli, che gli aveva consegnato la sua tessera da deputato ed il passaporto. La mattina del 12, infatti, Dumini era andato dal segretario particolare del Duce, Arturo Benedetto Fasciolo a render conto del "buon esito della missione". Il 13 giugno alla Camera, fingendo di ignorarne la sorte, Benito promise alla Camera che avrebbe fatto arrestare i colpevoli. Dichiarò che la coscienza del governo era tranquilla e che nessuno doveva strumentalizzare i fatti. Nello stesso giorno, il 13, tutte le opposizioni presero quindi la decisione di disertare i lavori parlamentari, finché non si fosse visto chiaro nella vicenda: era la secessione dell'Aventino. I non fascisti prendevano così atto dell'impossibilità di giocare un ruolo nella vita pubblica, mentre per Mussolini si apriva la nuova fase della dittatura totale. Il  Duce ordinò quindi al capo della polizia De Bono, al sottosegretario agli Interni Finzi e a Cesare Rossi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, di dimettersi e lasciò arrestare Rossi, Marinelli, Dumini e altri.  Nominò ministro dell'Interno il monarchico Federzoni, così guadagnò tempo e blandì i Savoia.
Il cadavere decomposto fu scoperto solo in agosto sepolto in una buca nel bosco della Quartarella, alla periferia di Roma. Il ritrovamento fu pilotato dal Regime che inscenò un rinvenimento casuale ad opera del cane di un guardacaccia. "Il Gazzettino" del 17 agosto titolava "Il cadavere di Matteotti scoperto in una boscaglia. Ha il petto squarciato da una lima". Era l'ennesima infame montatura: l'autopsia diagnosticherà ferite da pugnale (familiare agli arditi di cui era composta la Ceka), ma per far passare l'omicidio come preterintenzionale la salma fu inumata con una lima conficcata nel petto, come se per il delitto fosse stata usata un'arma impropria.
Gli storici ufficiali dello Stato italiano - Renzo De Felice in prima fila - hanno sempre insistito sull'estraneità del Duce all'organizzazione di questo assassinio.  I provvedimenti giudiziari che la magistratura riuscì ad assumere in mezzo a mille avversità cagionarono il malumore e l'agitazione delle camice nere, al punto che Benito il 3 gennaio 1925 si sentì in dovere di pronunciare un famoso discorso in Parlamento per dare la necessaria copertura politica ai suoi fedelissimi picchiatori.  Ebbro di un'incontenibile arroganza megalomane, si dichiarò colpevole del misfatto nell'Aula pubblica (si processò da solo, trasformando la colpa in onore al merito) in questi termini: «L'art. 47 dello Statuto dice: 'La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re e di tradurli innanzi l'Alta Corte di Giustizia'.- Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera c'è qualcuno che si voglia valere dell'art. 47. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo. Sono io, o Signori, che levo in quest'Aula l'accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una 'Ceka': dove, quando, in quale modo?  Nessuno potrebbe dirlo.  Si dice: - 'Il Fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione, è un movimento di banditi e di predoni'. S'inscena la questione morale...  e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia.  Ma poi, o Signori!  Quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito?  Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di quest'Assemblea, e di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.  Se le frasi, più o meno storpiate, bastano per impiccare un uomo, fuori il palo, fuori la corda!  Se il  Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa.  Se il Fascismo è stato un'associazione a delinquere, io ne sono il capo! ».
Locandina Film
Per chi volesse rivivere il clima di quegli anni, ne propone una fedele ricostruzione il film "Il delitto Matteotti" (1973) del regista scomparso di recente Florestano Vancini.  Memorabili le interpretazioni di Mario Adorf (Benito Mussolini), Franco Nero (G.M.), Vittorio De Sica (giud. istr. Mauro Del Giudice), Gastone Moschin (Filippo Turati).  La pellicola risente delle atmosfere plumbee del cinema impegnato anni '70 e sembra ammonirci sulla natura malefica di un sistema di potere ancora vivo ai giorni nostri.
I responsabili del delitto (assistiti dall'avvocato Farinacci, uno dei massimi gerarchi e capo delle camice nere) subiranno un compiacente processo nel 1926, che sarà portato a Chieti, la città più fascista d'Italia; condannati a sei anni circa, vengono rimessi in libertà dopo appena due mesi di detenzione.  Riaperto dopo la cosiddetta liberazione, il processo-farsa si ripete: sarà riconfermata la sostanziale impunità agli autori di uno dei crimini più vili ed aberranti di ogni tempo (condanne all'ergastolo, ma poco dopo quasi tutti fuori: anche Dubini è scarcerato dopo 9 anni ed impiega il resto della sua vita in liti giudiziarie per riavere le ricchezze che il regime gli ha elargito come prezzo dei suoi servigi).
Mauro del Giudice, il coraggioso magistrato che aveva istruito il processo, aveva assunto la carica Presidente di Sezione della Corte d'Appello di Roma il 9 aprile 1922, cioè prima della marcia su Roma.  Il ministro fascista di Grazia e Giustizia Oviglio lo promuoverà a Procuratore Generale di Cassazione per estrometterlo dal processo.  Nel 1954 (3 anni dopo la sua morte) fu pubblicata la sua opera Cronistoria del processo Matteotti; nell'ultimo capitolo leggiamo: «A Chieti la giustizia venne oscenamente stuprata, poiché colà non si fece la causa per giudicare e punire i delinquenti e complici ma, invece, cosa che supera i limiti della credibilità, si fece la causa contro l'assassinato. Infatti furono esaminati testimoni falsi [tra cui Kurt Suckert, il tanto blasonato scrittore filofascista Curzio Malaparte n.d.a.] che, con menzognere deposizioni, tentarono oscurare la chiara fama della vittima infelice, e tutte le arringhe pronunziate nel corso del dibattimento non furono, in sostanza, che tante requisitorie, specie quella del Farinacci, difensore del capobanda dei sicari, contro il glorioso ed eroico Martire della Libertà e delle giuste rivendicazioni dei diritti del proletariato italiano.  Quel pseudo giudizio pose in chiara luce di fronte al mondo civile inorridito non solo la corruzione di magistrati ed uomini politici, ma altresì la corruzione di un intero popolo, che in parte plaudì e in parte assistette impassibile, senza emettere un solo grido di protesta, allo spettacolo di tanta infamia, di tanta iniquità.  Sono giunto alla fine della mia ingrata fatica, uscendo dal lurido pantano di putridume che ho descritto e narrato con la maggiore obiettività possibile».
Due recenti pubblicazioni, La banda del Viminale di Giuliano Capacelatro e Franco Zaina, e Il delitto Matteotti: affarismo e politica alle origini del fascismo di Mauro Canali sfatano la leggenda dell'estraneità del capo del fascismo alla pianificazione del misfatto: risulta invece che lo seguì passo passo. È emerso che Marinelli e De Bono avevano fatto uscire di galera Otto Thierschald per metterlo alle calcagna di Matteotti. Lo avrebbe dovuto eliminare nel corso di un viaggio in Austria, facendo apparire il delitto come una faida tra socialisti.  Per indurlo a quel viaggio, infatti, De Bono fece restituire il passaporto a Matteotti, che però vi rinunciò. Il discorso che costò la vita al nostro deputato forse non fu quello del 30 maggio, ma quello che aveva preparato per l'11 giugno e che non fece mai.  In quell'occasione avrebbe potuto divulgare un dossier sui loschi traffici che facevano capo ad Arnaldo Mussolini e al re d'Italia.  Si tratta di una storia complicata che aveva al centro una concessione petrolifera cui mirava il colosso americano Standard Oil (multinazionale dei Rockefeller).  Dietro c'era il versamento di tangenti per finanziare il P.N.F. e i giornali fiancheggiatori del Regime.  Matteotti era stato clandestinamente in Inghilterra dove era stato rifornito di documenti dal governo di Londra (tramite la loggia massonica The unicorn and the Lion), interessato a difendere la Anglo Persian contro l'americana Sinclair Oil Company, controllata dalla Standard Oil.  Il colpo d'immagine che il regime avrebbe potuto ricevere dallo scandalo sarebbe stato assai più grave degli abusi e delle violenze in campagna elettorale denunciati nella famosa seduta del 30 maggio.



 Giugno 2007                                                                                                                                            A cura di
Edoardo Rubini
© EuropaVeneta.org