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Dialogo


San Marco sarà  un riferimento per l’Europa.

      Molto mi ha colpito il raffronto tra due lettere contestualmente pubblicate sul Gazzettino. Isnenghi freme, con due anni di anticipo, per la celebrazione del 150. dell’Unità d’Italia e per la ristrutturazione, all’uomo, del museo del risorgimento. Acquaviva definisce gli stati nazionali una «baraccopoli» che spera «in liquidazione». Credo che Acquaviva abbia ragione e che Isnenghi, invece, rappresenti una cultura d’apparato ormai al capolinea. È ben vero che è necessario conosceRatto di Europare la nostra storia ma solo chiudendo l’era delle strumentalizzazioni. L’anniversario del 1848 veneziano non può essere il 2011, perché il 1861 ed il 1866 non hanno nulla a che spartire con la Repubblica di Manin. Questi non voleva l’annessione al Piemonte, ma la scelta nel 1849 come male minore.
      Tommaseo abbandonò l’assemblea indignato. La rivolta antiaustriaca ebbe molte anime, ma Manin impose la via della veneta repubblica, imprimendo dunque una forte caratterizzazione di continuità con la nostra millenaria storia. Il 1859 già aveva visto la maggior parte dei veneziani freddi spettatori di un cosiddetto risorgimento del tutto allogeno. Il 1861 è per il Veneto totalmente privo di significato e nel 1866 la nostra terra fu annessa in modo vergognoso: due sconfitte italiane, Lissa e Custoza (da cui la famosa battuta di Napoleone III: un’altra sconfitta e gli italiani mi chiederanno Parigi), l’Austria, pur vincitrice, costretta a cedere il Veneto solo in virtù dell’alleanza dell’Italia con la Prussia (che invece aveva vinto sul campo di battaglia), i l plebiscito truffa dell’ottobre del 1866. Di lì, coscrizione obbligatoria, tassa sul macinato, miseria ed emigrazione in massa, il tritacarne della primavera guerra mondiale con i massacri e la devastazione del nostro territorio. Cosa ci sia da celebrare per i Veneti solo Isnenghi lo sa.
      Ben venga, quindi, il museo della sollevazione veneta del 1848-49, ma non si strumentalizzi Manin (che teneva i propri comizi rigorosamente in lingua veneta) per celebrazioni di eventi estranei, quando non dannosi, alla nostra cultura. Allo stato nazionale, clonazione della Francia rivoluzionaria e napoleonica persino nel tricolore, abbiamo pagato pegno per troppo tempo. Celebrarlo con entusiasmo significa essere vittime della sindrome di Stoccolma. Acquaviva vede lontano. Gli stati nazionali, dopo aver delirato di «sacri confini naturali» ed averci gettato nel «crogiuolo del sangue» di dannunziana memoria, segnano finalmente il passo: non battono più moneta e non decidono più nulla di politica economica, ovvero, sono ormai simulacri di sovranità.
      È il momento delle antiche culture europee: Scozia, Catalogna, Veneto, Bretagna. Credo che San Marco sarà ancora un punto di riferimento per l’Europa quando lo stato italiano sarà uno sbiadito e molti aspetti sgradevole ricordo. Sì Acquaviva: credo proprio che, nonostante la militanza di certi suoi sacerdoti, la baraccopoli sia in liquidazione.
      

Lorenzo Fogliata

STORIA D’EUROPA/ 6. Da Schuman, Adenauer e De Gasperi al tradimento delle radici cristiane
 Il Sussidiario, venerdì 5 giugno 2009 
 
Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman: i tre padri fondatori dell’Europa traevano dalla fede religiosa, professata e vissuta, e dall’impegno politico popolare una comune consapevolezza: che solo il cristianesimo può essere il cemento dell’unità europea. Europa e Cristianesimo sono un binomio inscindibile. Nello stesso senso di Leone XIII, essi affermano che l’Europa e la democrazia o saranno cristiane o non saranno affatto. Scriveva Schuman: «Tutti i paesi dell’Europa sono permeati della civiltà cristiana. Essa è l’anima dell’Europa, che occorre ridarle».
L’auspicio dei tre padri fondatori dell’Europa fu, dunque, quello di un’unione di stati laici, consapevoli delle loro radici cristiane. Non è difficile accorgersi che le tendenze prevalenti nell’Unione Europea sono oggi ben diverse da quelle sperate dai nostri tre artefici. Tutto quanto avviene a Bruxelles o a Strasburgo ha un referente privilegiato, che è il mercato. Certo, i primi passi dell’Europa furono economici: il carbone, l’acciaio, l’atomo, il mercato. Adenauer, De Gasperi e Schuman erano politici troppo accorti per non capir che proprio da lì occorreva cominciare. Ma solo per giungere ad una unione etica e politica. Che non c’è mai stata. L’Unione Europea ben poco ha a che fare con i popoli, dominata com’è da economisti, programmatori, burocrati e tecnocrati. Nata per seppellire i regimi autoritari, manca quasi del tutto di democrazia e gli accordi vengono assunti fra i governi, senza tener conto della volontà dei cittadini.
In altre parole, si tratta di un’Europa che non solo dimentica nel Trattato costituzionale i suoi fondamenti storici, ma spesso esalta e propone comportamenti in totale contrasto con la tradizione europea. Non paga di occuparsi delle dimensioni dei fagiolini, delle misure dei preservativi, del rumore degli sciacquoni igienici, della quadruplice classificazione di peperoni e melanzane, piselli e asparagi, della formula aritmetica per distinguere i pomodori dai pomodorini, l’Unione affronta argomenti che appartengono alla libertà e alla intimità della persona, con proposte amorali che vengono dai tecnocrati dei cosiddetti paesi più “evoluti”, i quali non di rado sono anche i più degradati.
Troppo spesso gli interventi dei politici, degli economisti e dei tecnocrati dell’Ue sono una continua invasione di campi che, in base al principio di sussidiarietà, dovrebbero spettare agli stati membri, non al Consiglio d’Europa. In un delirio di onnipotenza che tiene in poco conto le tradizioni nazionali e la sovranità degli stati. Soprattutto quando tali decisioni entrano nella sfera personale e intima della persona e quando non esitano a rifiutare costumi della tradizione europea legati al diritto di natura. Anche in ciò l’eredità dei tre padri fondatori è stata tradita. Si pensi alle risoluzioni a favore dei matrimoni omosessuali, per l’uso libertario degli embrioni, in difesa dell’aborto, della clonazione e dell’eutanasia.
Questo mancato riferimento alla radici cristiane dell’Europa non è né un caso, né un espediente per evitare conflitti di ideologie o di confessioni. È, invece, l’espressione evidente di quell’atteggiamento, che un grande teorico del diritto, Josef H. Weiler, ha chiamato “cristofobia”. Naturalmente mistificato e venduto come neutralità dal sofisma nichilista imperante: dato che non appare dubbio che la categoria di “neutro”, quando si parla di valori e non di lucido per scarpe, è solo un espediente ideologico per giustificare una scelta relativista e nichilista.
Bastano a provarlo due eventi accaduti nel Consiglio d’Europa. Come è noto il leit motiv ricorrente nell’aula di Strasburgo è il rispetto per tutte le opinioni. Ecco perché nemico numero uno viene considerata la cosiddetta “discriminazione” – termine usato più in senso emotivo che logico. Tuttavia, gli stessi che difendono tutte le opinioni non di rado si mostrano intolleranti e persecutorî. Nell’aprile del 2007 i partiti di sinistra presenti nel Parlamento Europeo hanno presentato una mozione di condanna (poi caduta) del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Angelo Bagnasco, perché si era espresso contro i matrimoni omofili. Dunque esaltarli è permesso, anzi obbligatorio, criticarli non è lecito.
L’altro episodio è ancora più grave. Il Parlamento Europeo, nell’ottobre 2004, bocciò la candidatura dell’on. Rocco Buttiglione a Commissario Europeo per la “Giustizia, libertà e sicurezza”. Quale il motivo? Che, essendo cattolico, non avrebbe dato sufficiente garanzia di laicità e di rispetto delle opinioni diverse dalle sua. Per singolare paradosso, proprio gli strenui avversari della “discriminazione” non esitano a farne uso, quando si tratti di cattolici. Aveva davvero ragione l’allora cardinale Ratzinger a parlare di «secolarismo aggressivo e a tratti persino intollerante».
I tre “grandi vecchi” avevano enunciato, sulla base della tradizione del Vangelo e della dottrina sociale cristiana, l’unità e la potenza dell’Europa. Esse sono state meno realizzate che tradite. Tanto che prevalgono, nei popoli europei, sfiducia, scetticismo e assenteismo elettorale. L’Europa sembra un bastimento alla deriva. Per metterlo in sesto occorre ciò che Giovanni Paolo II indicò, proprio davanti al parlamento europeo: «La chiesa, per rispondere alla sua missione oggi in Europa, deve avere la coscienza che, lungi dall’essere estranea all’uomo europeo, porta invece in se stessa i rimedi alle difficoltà e alle speranza del domani dell’Europa».
Il ricordo dei tre fondatori dovrebbe indurre l’Europa a mettere da parte le tentazione masochistiche. Per uscire dalla crisi l’Europa deve solo essere nuovamente se stessa. Deve recuperare la sua identità, altrimenti, ci dice Benedetto XVI, «un albero, senza radici, si secca».


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